La tradizione dei testi shakespeariani prestati al grande schermo è lunga e affascinante.
Le preferenze sono cadute soprattutto sulle tragedie, da Romeo e Giulietta – da ricordare la visione preraffaellita di Zeffirelli e il rutilante amore teenager di Baz Luhrmann – all’Amleto, che ha visto cimentarsi nel ruolo del principe danese attori come Laurence Olivier, Mel Gibson, David Tennant e Kenneth Branagh, quest’ultimo divenuto un vero specialista delle trasposizioni cinematografiche delle opere del Bardo.
Ma c’è un testo in particolare che ha attraversato la storia del cinema, attirando l’attenzione di tre grandi registi, tra i più importanti esponenti delle loro rispettive epoche: questi sono Orson Welles, Akira Kurosawa e Roman Polański, l’opera è Macbeth. La vicenda del condottiero che conosce per mezzo di tre streghe il suo destino di re e, guidato dalla volontà spietata di Lady Macbeth, uccide il suo sovrano e ne usurpa il trono, ha da sempre incarnato il modello negativo dell’ambizione senza freni, che annienta ogni umanità e conduce alla follia. In nessun’altra opera si trova una rappresentazione così efficace degli effetti nefasti del poter su un uomo ed è questo che la rende una tragedia tra le più spaventose e attuali, declinabile in ogni epoca e luogo. Welles ne offre nel ’48 una versione espressionista, tra streghe che brandiscono feticci mostruosi e troni vertiginosi; Akira Kurosawa nel 1957 ci trasporta nel medioevo feudale giapponese avvolto nelle nebbie da cui spuntano spettri pallidi e nugoli di frecce. Infine Polański firma una versione granguignolesca del Macbeth, che per alcuni critici risente dei non lontani fatti di Los Angeles e dell’omicidio della moglie per mano di Charles Manson e produce un’opera allucinata in cui trovano spazio sabba di streghe nude, ispiratissime musiche sinistre e sangue. Fiumi di sangue. Era il 1971 e sembrava che tutto fosse stato ormai detto su questa tragedia.
Ma arriviamo al 2015 e al regista australiano Justin Kurzel, classe ’74 e all’attivo un solo film, Snowtown – storia di un efferato serialkiller – che viene chiamato a compiere l’impresa: sfidare i tre maestri sul loro stesso campo. Suona quasi come la trama di un western: lo straniero che giunge dalla polvere e sbaraglia i signori della città con il suo insospettabile valore.
Purtroppo non è il caso del buon Kurzel. Il suo Macbeth è un lavoro incomprensibile, per inutilità e incapacità di manifestare la benché minima idea originale. Fin dalle prime battute, la pellicola risente di un notevole appesantimento estetico, un’ingiustificata gravità che deve trasparire da ogni singolo fotogramma. Musiche, fotografia e interpretazione concorrono a imbalsamare l’azione, rendendola faticosa e liturgica. Come se il Macbeth fosse un testo sacro di cui è lecita solo la rappresentazione e non l’interpretazione. Curioso se si pensa a quanto invece il teatro abbia saputo trarre da questa tragedia, nella piena libertà di trasformarlo e ricomporlo, pur nel rispetto del valore del testo originale. Del resto il passaggio dal palcoscenico alla pellicola esige sempre un riadattamento dell’opera: quello che funziona in scena, difficilmente ha uguale forza al cinema. La timidezza del regista diventa irritante accademia, quasi il lavoro di fine anno di uno studente rispettoso. Sia chiaro, la qualità tecnica è alta, ma del tutto accessoria. Gli sforzi dell’autore si concentrano quasi esclusivamente sulla costruzione di un’atmosfera, trascurando lo sviluppo psicologico dei personaggi. Sia Macbeth che Lady Macbeth, interpretati da due attori di primo piano come Michael Fassbender e Marion Cotillard, risultano monolitici, tragici ancor prima che la tragedia avvenga, rendendo vano ogni tentativo di dare sangue ai personaggi. La recitazione conosce un unico registro, quello drammatico e i monologhi sono enfatizzati da insistiti primi piani, che contribuiscono a rallentare il ritmo di una pellicola già affetta da una certa monotonia. L’azione è annegata in un mare di rallenti da videoclip che tolgono centralità ai gesti e soprattutto alle parole degli attori, che suonano come vuote cantilene, per quanto gli attori sfoggino interpretazioni pressoché perfette. Forse troppo. Persino le streghe, figure chiave della tragedia ed elemento su cui la fantasia di un regista può totalmente sfogarsi, sono descritte come tre morigerate signore in abito scuro, più mogli di mormoni che emissari del demonio.
C’è da chiedersi a questo punto quale sia il senso di questa operazione, di cui nulla sembra salvarsi, se non forse una buona trovata nel finale infiammato del duello tra Macbeth e McDuffed. Che sia forse il prodotto di un’ambizione non sorretta dal talento, il tentativo di scalare le vette percorrendo vie infernali e finendo col rovinare pesantemente?
Justin Kurzel è ora alle prese con un’altra trasposizione, quella del videogioco Assassin’s Creed.
Da Shakespeare alla Playstation. Anche le Streghe hanno il senso dello humor.