Prima di cominciare, una doverosa premessa: c’è stato un periodo della mia vita in cui sono stato un fan sfegatato dei Pink Floyd. Forse anche qualcosa di più. Avevo circa sedici anni e avevo già visto almeno cinque volte The Wall (il film), in camera mia troneggiavano ben impilati tutti i loro cd – in rigoroso ordine d’uscita – ed erano accompagnati dai lavori solisti di Syd Barrett e pure quelli di Roger Waters, del libro Pink Floyd in Technicolor possedevo due edizioni che differivano l’una dall’altra semplicemente per la grammatura della carta, e credevo che l’unico modo per valutare il valore di un album qualsiasi fosse calcolarne la vicinanza a The Dark Side of the Moon. Ah, nell’eterna diatriba tra Waters e Gilmour mi sono sempre schierato senza esitazioni a favore del primo. Tutto questo per dire che ho letto Wish You Were Here – Syd Barrett e i Pink Floyd con gli occhi di un fan (o di una persona che un tempo era stata fan). E questo è sicuramente un fatto da tenere in considerazione.
Ma partiamo dal principio. Wish You Were Here – Syd Barrett e i Pink Floyd è una graphic novel pubblicata da Edizioni BD e uscita nella collana “Rock” (dove è andata a fare compagnia a fumetti su Kiss e AC/DC, Slash e Billie Holiday). Danilo Deninotti, lo sceneggiatore, non è nuovo a operazioni di questo tipo: un paio di anni fa aveva raccontato la storia di un Kurt Cobain non ancora famoso in Kurt Cobain – Quando ero un alieno. Basterebbe questo particolare per dedurre che Deninotti una certa predisposizione per le figure tormentate e geniali ce l’ha. E quindi non stupisce che il vero protagonista di WYWH sia Syd Barrett. Di lui si segue ascesa e declino, e in rapporto a lui – alla sua presenza, inizialmente; alla sua assenza, con il proseguire della storia – si muovono tutti gli altri personaggi. Il lento ripiegarsi del genio di Barrett in un mondo sempre più inaccessibile, quel suo continuo inabissarsi in un universo senza punti di contatto con quello in cui si muove la band: ecco il focus della storia. Una storia narrata in un arco cronologico bello lungo, una decina di anni che vanno dal 1964 – fondazione dei Pink Floyd – al 1974 – sessioni di registrazione di Wish You Were Here. Ed è nel modo in cui tutto questo viene raccontato che si cela la forza della sceneggiatura di Deninotti, nella scelta di far procedere la narrazione per continui flash, di utilizzare aneddoti che attingono alla feconda e stratificata mitologia di Barrett e compagni, balzando da un evento all’altro, da un anno all’altro, senza essere mai didascalici. Una scelta vincente che crea un ritmo serrato e incalzante, e dà movimento a una vicenda nota, notissima, arcinota.
E poi ci sono i disegni. Luca Lenci reinventa la tavola incessantemente – una vera battaglia contro le classiche sei vignette per pagina –, ricreando dal punto di vista grafico quello stesso movimento a cui giunge il montaggio di Deninotti. In una sola vignetta, inoltre, spesso convivono momenti che appartengono a sfere temporali differenti, come quando si può vedere Syd Barrett attraversare Abbey Road con in mano la custodia della sua chitarra, e ammirare come venga scisso in quattro Barrett successivi, che strizzano l’occhio alla più famosa cover di tutti i tempi. Se a questo aggiungiamo uno stile espressionistico che interpreta in maniera personale le fisionomie e le fattezze dei vari Waters, Gilmour, Mason ecc, senza però mai lasciare da parte la riconoscibilità fisiognomica (di cui non si può fare a meno in un fumetto che si pone come obiettivo il racconto della verità storica), arriviamo a comprendere l’efficacia di Lenci. Il tutto, peraltro, è interpretato nelle tonalità del rosa e del nero, richiamando allo stesso tempo il nome della band e quella psichedelia nella quale i Pink Floyd, soprattutto i primi, quelli di Barrett, erano immersi.
C’è un’ultima cosa da dire. WYWH è letteralmente disseminato di citazioni e ammiccamenti di tutti i tipi ai lavori dei Pink Floyd, alcuni espliciti, altri nascosti, altri ancora quasi introvabili. Ce ne sono talmente tanti che il libro potrebbe essere utilizzato senza difficoltà come una sorta di test: “Da uno a dieci, quanto pinkfloydiano sei?”. E allora il discorso non può che tornare al mio essere fan, al mio esserlo stato. Ammetto di non essere la persona giusta per comprendere quanto WYWH possa avere presa su chi dei Pink Floyd conosce giusto qualche canzone. Per me osservare alcune vignette di Lenci – Syd Barrett seduto sul divano, lo sguardo fisso davanti a sé e un mozzicone di sigaretta in mano, per esempio – e riconoscere in ogni particolare un fotogramma di The Wall è già di per sé entusiasmante, una soddisfazione che ha a che fare con il mondo dell’adolescenza, quel mondo in cui ci si definisce nell’appartenenza a un certo gruppo e nel contrasto con un altro gruppo. Mi rendo conto però che un entusiasmo di questo tipo è qualcosa di estremamente personale. È allora questo, credo, il limite più grande di WYWH: essere riservato ai fan o, comunque, a chi i Pink Floyd li ha ascoltati con attenzione, molta attenzione. Questo accade perché i punti di forza – il citazionismo spinto, il procedere per flash, l’attingere a una stratificata mitologia – diventano punti deboli per un lettore con una conoscenza soltanto superficiale dell’argomento. Andiamo, però: a chi non piacciono i Pink Floyd?