Il poeta triestino Claudio Grisancich, classe ’39, è autore di drammi teatrali e opere in versi, in dialetto e in italiano, tradotte in diverse lingue e presenti in numerose antologie. Ha collaborato con la Rai e altre emittenti radiofoniche. Le sue ultime pubblicazioni sono: La vita dentro ovvero elogio del punto e virgola (Ibiskos) e Cafè de moka e dediche (Hammerle Editori in Trieste). Nel 2013 si è confrontato con il genere haiku: 99 haiku metropolitani (Fuorilinea).
Nella prefazione agli Haiku metropolitani c’è una sua citazione leopardiana tratta dallo Zibaldone sull’importanza della genuinità e della franchezza del poeta. In che modo lei vive questa spontaneità necessaria per non essere artificiosi?
Genuinità significa scrivere solo quando si ha qualcosa da dire. Come disse Saba, se non si ha niente da dire si vive. Ma questo non vuol dire che si debba essere naÏf: ci deve stare dietro un lavoro di rielaborazione di quello che si è letto e studiato. C’è sempre una fase scientifica, tecnica, ci vuole un mestiere. La spontaneità appartiene a un’idea vacua dello scrittore; lo scrittore sa amministrare bene le parole. Nella mia vita ho fatto l’impiegato alle Generali come addetto stampa, ho vissuto quindi due vite parallele, da un lato una vita normale, da persona comune che si interessava e si interessa a tutto, dall’altro la scrittura, un tipo di scrittura che ha risentito e risente dell’assenza di condizionamenti politici o sociali, ma che si nutre di curiosità.
Lei ha un forte legame con la sua città, Trieste. Come descrive questo rapporto e come descriverebbe con un’immagine la sua città?
Yourcenar diceva che si nasce, si vive e si muore in un pianeta. Io sono nato a Trieste ma non vivo campanilisticamente, mi sento un cittadino del mondo, Trieste infatti è proprio una finestra sul mondo perché abbiamo il mare davanti. La descriverei come una vecchia signora che vuole stare in linea coi tempi, moderna.
Come poeta dialettale in che modo ha sentito l’influenza di Pier Paolo Pasolini, di cui si sono recentemente celebrati i quarant’anni dalla morte?
Pasolini era un trapiantato in Friuli. Aveva radici nel Friuli arcaico: sentiva quella terrosità sanguigna. Si dice che non sapesse ridere. Era un moralista, un duro, un corsaro tremendo, che ha fatto moltissimo per la cultura e per la società italiana. Ma la sua pesantezza era molto lontana dai triestini.
Pier Paolo Pasolini ha combattutto con il partito comunista e anche con la chiesa, pur essendo spirituale. È stato di certo un grandissimo poeta dialettale. Sono rimasto colpito proprio da quelle poesie, mi hanno fatto intravedere delle possibilità con il dialetto che prima non avevo. Ho iniziato a scrivere in versi in dialetto a 11 anni, perché sono nato da genitori non colti, orecchiando la poesia vernacolare triestina ridanciana. Ma Pasolini ha aperto una strada precisa: il dialetto con lui ha cominciato a dare chance verso il tragico che prima non c’erano. Penso a La meglio gioventù, a Poesie a Casarsa.
Il dialetto è un mistero che verrà a cadere molto presto, perché la lingua si va omogenizzando sempre di più. Anche a Trieste certi termini non si usano ormai. Mia figlia per esempio non parla il dialetto: in casa parliamo in lingua. Credo che tra 30 anni il dialetto triestino sparirà. Per me non si tratta di una scelta, non traduco quello che scrivo; quando sento di scrivere in dialetto lo faccio, quando sento di scrivere in lingua scrivo in lingua.
Come è nata la decisione di scrivere haiku?
La struttura linguistica degli haiku mi dava la possibilità di schizzare questi brevi aforismi che in dialetto non avrei potuto realizzare. Li ho scritti tutti in due settimane. Volevo fissare certi miei giudizi sulla realtà; è stata una cosa improvvisa, un’esigenza alla Rimbaud, un’illuminazione, un improvviso lampo. Non ho più ripreso questa forma.
Nella tradizione giapponese si tratta di un tipo di componimento molto legato alla natura…
Sì, ma i miei haiku vogliono affrontare la realtà, il vissuto quotidiano, non solo la natura. In questo mi distacco dalla tradizione giapponese. Sono un uomo pragmatico.
Cosa sta scrivendo in questo momento?
Ora sono in vacanza. Ho appena pubblicato un libro di poesie in dialetto, Cafè de moka e dediche (Hammerle) e una piccola prosa del paesaggio dell’infanzia, La vita dentro ovvero elogio del punto e virgola (Ibiskos Editrice Risolo) in italiano. È la mia storia, con mio padre e mia madre, immersa negli anni della seconda guerra mondiale: sono tre capitoli, anche brevi, fatti anche di una sola parola. Alla mia età si fanno i conti con il passato, ma senza nostalgie, guardando al futuro!
Ritornando alla spiritualità di Pasolini, qual è invece oggi il suo rapporto con la spiritualità?
Non sono credente, vivo in maniera laica la vita. Ma penso che l’uomo sia un fatto religioso, un mistero; il resto lo lascio credere a chi ha bisogno di credere… Io mi limito a stare di fronte al mistero dell’uomo. Un mistero che si può accettare.