Massimiliano Parente è noto al grande pubblico soprattutto per le provocazioni che lancia su Facebook o nei suoi articoli per il Giornale o per Dagospia, pur essendo autore di sette romanzi, due raccolte di articoli e di un saggio sull’opera di Proust. L’autore, con il ghigno che lo contraddistingue, incoraggia volentieri questo equivoco, dando vita ad aggressive polemiche letterarie anche con attacchi personali (non ultimi quelli a Nicola Lagioia e a Christian Raimo), o esibendosi in atteggiamenti di compiaciuto antintellettualismo. Eppure, dietro a questa patina di sgradevolezza, di pacchiana antipatia, che gli ha alienato qualsiasi simpatia della critica, si nasconde uno scrittore serio e rigoroso. In occasione dell’uscita del suo nuovo romanzo, L’amore ai tempi di Batman, il 26 gennaio, vale la pena di ricordare le sue due opere più significative, Contronatura (Bompiani, 2008) e L’inumano (Mondadori, 2012).
Parente parte da una valutazione radicale del potere conoscitivo di fisica e biologia, che mostrano senza possibilità di scampo la casualità e la provvisorietà della vita sulla terra. Dalla luce violenta di questa evidenza Parente non ravvisa ripari possibili, né nell’eventualità di un ritorno alla natura («Il mare guardato da me è molto simile a se stesso, all’essere visto da nessuno. Una massa d’acqua senza senso, senza alcun retropensiero d’appoggio», Contronatura, p. 51), né nell’arte intesa come trascendenza, né in una comunione politica.
Ne L’inumano la riflessione sull’insensatezza della vita umana arriva a strutturare il libro stesso, che alterna ai capitoli dispari in cui si svolge la vicenda “romanzesca” quelli pari, intitolati coi nomi delle ere geologiche, in cui Parente mischia scene in cui viene torturato a descrizioni dell’origine della vita sulla terra. In realtà, il romanzo intero si potrebbe concepire come un ininterrotto dialogo con la vastità inutile e insensibile del cosmo.
Alla coscienza di questa condizione, Parente non può che opporre (leopardianamente, beckettianamente) il rifiuto della vita in quanto fenomeno meramente naturale, e per esprimere questo rifiuto deve arrivare a una condizione di inumanità. Il Massimiliano Parente protagonista di Contronatura e de L’inumano ripete in continuazione di rappresentare l’ultimo stadio della razza umana, lo stadio della presa di coscienza definitiva della vanità della vita e dunque dell’abbandono delle logiche del corpo.
All’istinto di sopravvivenza, l’uomo deve trovare il coraggio di opporre un’intelligenza di estinzione. La vacuità dei mondi (quello televisivo e quello editoriale) che il protagonista attraversa, di cui viene reso il chiacchiericcio incessante e il dominio dell’opinione sul ragionamento, non è assimilabile alla condizione di vuoto interiore del protagonista («Lei, d’altra parte, è ormai così vuoto» – uno dei leitmotiv dei romanzi di Parente sin da Incantata o no che fosse). Quest’ultima rappresenta infatti la dimensione fondante dello stadio superiore e ultimo di umanità cui approda il protagonista.
Il processo di inumanizzazione passa attraverso la depravazione degli istinti umani naturali. Il sesso, in Parente, non è mai una fonte di gioia o di vero piacere, al massimo un’angoscia, un’ossessione, ed ecco dunque l’insistenza su una sessualità degradata e pervertita, sul feticismo, sul voyeurismo, sulla prostituzione. L’esibizione estrema di inumanità Parente la fa infierendo sessualmente sulla propria figlia neonata in Contronatura, «mia figlia, l’orribile agglomerato organico partorito da Naike Porcella e impastato coi miei cromosomi» (p. 28). Non è solo l’estrema ripugnanza del gesto (l’abuso su un neonato), compiuto in uno stato di apatia, a colpire il lettore, quanto la radicalità dell’idea che vi sottende, cioè il rifiuto ideologico della paternità e della riproduzione, che torna anche in uno dei passi più desolanti de L’inumano, con toni più pacati e malinconici, ma se possibile anche più suggestivi.
Da questa intelligenza di estinzione viene anche il rifiuto di tutte le convenzioni sociali: ne L’inumano, i capitoli narrativi si concentrano ciascuno su vari aspetti della vita (l’arte, la letteratura, la televisione, la politica), tutti liquidati dal sarcasmo feroce e disperato di Parente, esattamente come in Contronatura erano liquidati i mondi della televisione e dell’arte contemporanea – entrambi ipostatizzati in Naike -, oltre che quello letterario. Quelli che dovrebbero essere artisti e creativi sono solo un esercito di pervertiti, di pederasti viscidi, di creature attaccate ai propri istinti più bassi e al loro narcisismo, che si muovono nelle coordinate di un mondo completamente plasmato sulle zone più volgari e degradate della televisione generalista. La vanità e l’intima falsità di ogni sforzo, declamate in ogni pagina con un’esemplificazione minuziosa, sono necessarie a Parente per ribadire la mancanza di senso della vita: proprio come il suo Proust, per dire il nulla Parente deve dire il tutto.
Di qui, infine, viene la macellazione del protagonista stesso, che è descritta attraverso tutti i capitoli pari de L’inumano. La mancanza di spiegazione alla serie di torture raccapriccianti che viene compiuta su Parente rappresenta la mancanza di senso della storia della vita biologica raccontata in parallelo, e il susseguirsi di mostruosità (il cannibalismo, l’omicidio) che Parente subisce rimane ingiustificato, un parossismo stanco sullo sfondo della tragedia maggiore, che è l’insensatezza del cosmo. Se pure è vero che Parente ha sempre cercato nei suoi romanzi di suscitare un senso di ripugnanza (l’incesto in Mamma, le fantasie coprofile di Incantata o no che fosse) che serve a guadagnare l’attenzione del lettore, in Contronatura e ne L’inumano lo scandalo è finalizzato a evidenziare, tramite l’apatia con cui il personaggio Parente vive gli orrori che compie e che subisce, la loro finale insignificanza.
L’autofiction, che Parente svolge in maniera brillante ma assolutamente derivativa, senza lo sperimentalismo di Busi o di Siti e anzi riducendo i loro tentativi a repertorio di espedienti (la comparsa di personaggi famosi, l’incongruenza biografica), non è un semplice vezzo letterario, bensì il parallelo narrativo del rifiuto della naturalità che regge Contronatura e L’inumano. Non è sorprendente che, nella sua lotta disperatamente razionale contro la natura e i suoi istinti, Parente scelga il meno naturalistico degli espedienti narrativi, quello che, facendosi insieme autobiografia e invenzione, macchiando di finzione l’intimità dell’autore stesso pur rimanendo una forma al massimo grado di letterarietà, porta però a un gioco continuo di specchi e di rimandi che rende impossibile sciogliere l’ambiguità che vi sta alla base.
Contronatura e L’inumano sono due opere peculiari e inquietanti, che per mole, ambizione e difficoltà di lettura fanno venire in mente i giganti cui Parente si ispira, Busi e Moresco, per il nichilismo materialista Siti e Pecoraro – distanziandosi però dai primi per l’oltranza tematica, e dai secondi per l’abbandono di qualsiasi nostalgia ideologica. Parente, approdato allo studio delle scienze anche per esasperazione verso quell’ambiente umanistico che lo ha rifiutato, vi trova un patrimonio di forme e pensieri che lo aiuta a dare corpo alle fantasie di morte che animano tutta la sua produzione. Soprattutto, la scelta di riferirsi al pensiero scientifico (totalizzante e, da un certo punto di vista, indiscutibile) mette Parente nella posizione di potersi scuotere dalle beghe civili e letterarie in cui si impaluda tanta narrativa italiana, guadagnando insieme un mezzo che gli permette di affrontare la vita umana nel suo complesso e la sua posizione nel cosmo.