Non è mai semplice parlare della propria città. C’è il rischio di fare un elogio sentimentale, oppure un feroce atto di accusa. Sicuramente non è possibile, anche sforzandosi, essere imparziali. Prendendo per mano il lettore, racconterò la mia Rimini, la mia Romagna, sarà unicamente il mio punto di vista, la mia personale visione in cui forse qualcuno si potrà rispecchiare, molti sicuramente non ne saranno rappresentati.
Torno spesso a Rimini. Ogni volta la vedo con occhi diversi. Se penso a Rimini mi vengono in mente alcune immagini che hanno avuto la loro fortuna negli anni Ottanta, grazie ad alcuni film: la spiaggia assolata e festante, la belloccia in topless, il marito fedifrago oppure cornuto e le discoteche con la loro atmosfera onirica e surreale. Rimini come Hollywood, come Nashville, un vero e proprio paese della cuccagna dove tutti i sogni si possono realizzare. Così scriveva Pier Vittorio Tondelli in una serie di articoli poi confluiti nel volume Un week-end postmoderno. Rimini come l’elisir di eterna giovinezza, città giovanile per antonomasia, luogo frenetico e carnevalesco dove, almeno per un giorno o al massimo per una settimana di vacanza, è possibile cambiare il proprio ruolo e destino. Una festa continua, senza sosta.
Sto passeggiando tra vie e vicoli del centro, quando mi faccio la fatidica domanda: ma cos’è rimasto di quella Rimini? Cosa succede con la fine della stagione estiva? Dopo l’estate Rimini non scompare dalle cartine geografiche, rimane sempre lì davanti il mar Adriatico e di fronte alla Croazia.
Sembra essere rimasto ben poco della Rimini anni Ottanta, molti simboli di quegli anni sono crollati. Primo fra tutti la discoteca Paradiso, nome azzeccatissimo per un locale che, trovandosi sul colle di Covignano, guardava Rimini dall’alto in basso con supponenza e altezzosità. Vedere oggi il Paradiso, luogo di incontro per tossici, rifugio accogliente per senza tetto, rende del tutto opaca la sua immagine degli anni ruggenti tra gli Ottanta e i Novanta. Era una protesi della «Milano da bere», che, dopo una settimana sui Navigli, il venerdì sera si riversava sull’autostrada per raggiungere la Riviera e abbeverarsi alla vera fonte del divertimento. Ospite d’onore il ministro craxiano Gianni De Michelis, che si presentava insieme alla sgallettata di turno della TV, rigorosamente in giacca e cravatta e ancora più rigorosamente con il capello all’indietro in un misto di brillantina e sudore. Altro posto che non sta vivendo il suo momento migliore è il Cocoricò, famoso per la sua piramide di vetro che dava la possibilità ai suoi avventori di guardare le stelle mentre si ballava in modo orgiastico su musiche tecno assordanti. Luogo del sesso e delle droghe libere, di un giovanilismo spinto fino alle sette di mattina quando orde barbariche si riversavano nei bar a mangiare bomboloni caldi. Oggi è stato chiuso per una politica nazionale al limite del paternalismo, che ha scoperto che al suo interno giravano sostanze stupefacenti che, come moderne Socrate, corrompevano i giovani.
Sembra essere definitivamente scomparso il divertimentificio. Anzi è ormai talmente un vago ricordo che i patinati cartelloni pubblicitari, ideati da Maurizio Cattellan, che tappezzavano quest’estate i muri di Rimini, inneggiando al machismo dei vitelloni romagnoli, al divertimento alcoolico ad oltranza e a ragazze disinibite all’eccesso, sono risultati estremamente anacronistici, fuori tempo massimo.
Questa Cartoonia moderna, questa Fiabilandia a cielo aperto ha perso il suo fascino magnetico, riducendosi a mera città di villeggiatura per nostalgici pensionati?
In realtà, anche se in pochi se ne sono accorti, Rimini è sempre stata una città melanconica e nostalgica. Innanzitutto per la sua conformazione geografica: chiusa su tre lati, con il lato ad est affacciato sul mare, ossia sull’ignoto. È proprio questa paura dell’ignoto a infondere un senso di profonda melanconia al riminese, che ha il terrore di affacciarsi oltre le sue personali colonne d’Ercole. Sul mare si specchiano le proprie paure, indecisioni, tristezze che non possono essere dissipate in una stagione estiva, al massimo temporaneamente sospese.
Pochi autori hanno compreso questa componente drammatica. Primo fra tutti Federico Fellini.
Che dire del volto triste, melanconico e corrucciato di Alberto Sordi durante una festa in maschera nei Vitelloni? Fellini è stato il primo a mettere in scena la malinconia di questi eterni Casanova romagnoli. Mi ricordo che fino a pochi anni fa, davanti a una nota discoteca di Rimini, ci si poteva imbattere in un uomo sulla settantina con capelli lunghi, basette stile Beatles, pantaloni a zampa di elefante e zoccoli olandesi, che ricordava il suo record mai eguagliato di conquiste di ragazze straniere. Non c’era bisogno di conoscere le lingue ai suoi tempi, bastava parlare il linguaggio universale dell’amore. Credo sia difficile trovare immagine più melanconica di questa: non c’è nulla di più triste della figura del latin lover romagnolo, vero e proprio clown del mare.
Questi maschi lasciavano la «morosa» a maggio, così da avere campo libero durante l’estate. Poi tornavano a settembre con la coda tra le gambe a chiedere di essere perdonati. Il più delle volte le ex morose li perdonavano, per una convinzione che nasceva sulle panche delle Chiese, dove molti parroci suggerivano di perdonare questi rei confessi. In Romagna negli anni si è diffusa una cultura cattolica, che ha sdoganato una decisa divisione gerarchica dei ruoli. In fondo questi Casanova potevano continuare a raccontare le loro gesta nel bar sotto casa, mentre la moglie li aspettava per mangiare insieme piada e squacquerone. Erano davvero eterni Peter pan vanesi: solo da questa terra poteva nascere un uomo come Benito Mussolini, con un io così spropositato e una accentuata volontà di potenza.
Oltre Fellini, ci sono stati altri artisti che hanno avuto la bravura di riprendere Rimini in inverno, rendendosi conto del fascino melanconico che irradia in quel periodo dell’anno e con cui i riminesi devono fare i conti. Lo ha rappresentato bene Giuseppe Tornatore nel suo Stanno tutti bene: Marcello Mastroianni cammina in una giornata uggiosa lungo la battigia insieme a una comitiva di pensionati. Il mare mosso e tendente al grigio, la spiaggia disadorna e le cabine sprangate con assi di legno: in questo caso la spiaggia proietta all’esterno la solitudine di Mastroianni che, partito dalla Sicilia, sta facendo il giro d’Italia per andare a trovare i figli. Non ci sarebbe sottofondo migliore della prima strofa della canzone Inutile di Francesco Guccini:
A Rimini la spiaggia com’è vuota, quasi inutile
di marzo,
deserta dell’estate, in ogni simbolo imbecille
e vacanziera
e noi, senza nemmeno un poco d’ironia, fra
gusci e quarzo,
ad inventare insieme primavera
Memorabile anche la scena della Prima notte di quiete di Valerio Zurlini: Alain Delon, con il suo paltò marrone cammello e una gauloise in bocca, cammina sulla darsena di Rimini in direzione del faro. La passeggiata è nervosa e frenetica, viene resa ancora più affascinante perché Delon si trova completamente immerso nella nebbia, una spessa coltre che lo isola nei suoi pensieri. Rimini è anche questa: il suono acuto e persistente del faro in una notte di nebbia.
Ma Rimini diventa stupenda anche in primavera, quando la natura si risveglia e comincia a crescere rigogliosa. Non c’è niente di più bello, con i primi caldi, che prendere la bici da corsa, i romagnoli sono famosi per la loro passione per le due ruote, e avventurarsi nell’entroterra per scoprire l’altro lato della città: quello della campagna collinare. Basta uscire di poco dal chiasso infernale del centro per ritrovarsi su strade che sono circondate da grandi distese di campi. Non si può non rimanere colpiti dai colori primaverili dell’entroterra riminese, con i suoi ocra, verdi e rossi che ricordano quadri del Reni e del Cagnacci.
In questo lembo di terra i marinai lasciano il posto alla cultura popolare contadina, che si basa ancora sul ciclo delle stagioni. Questa è la patria di Tonino Guerra, il cantore di questo idillio in terra.
Almeno una volta nella vita un riminese dovrebbe fare un pellegrinaggio a Pennabilli, in questo borgo fiabesco. Qui, sul punto più alto, troverebbe la Casa dei mandorli, dimora di Guerra, e tutt’intorno il suo magnifico orto dei frutti dimenticati, dove hanno trovato rifugio, tra gli altri, il gelso, le nespole, la rosa canina e il sorbo. È davanti a questo incanto della natura che possono venire in mente alcuni versi del poeta:
Questo è il nostro orto, un poco di terra
circondata da un muro
dove sono seppellite le carogne dei gatti
ed è il nonno a badarci
con i suoi bussolotti di semi e di fagioli secchi
con una piccola zappa dal manico lungo
che appoggia dietro la casa.
D’estate c’è un po’ di tutto
maturano anche i piselli
anche le melanzane nere insieme all’insalata;
all’inverno solo i cavoli
con le foglie bucate
e il nonno guarda guarda dalla finestra
perché gli piace starsene al caldo.
Questi frutti dimenticati contengono alcuni ricordi infantili, evocano una natura fuori e dentro il tempo, rappresentano una civiltà che dopo aver perso memoria di sé, converte la perdita in rivalsa.
Credo che questo sia il punto fondamentale che solo un poeta poteva mostrarci: una città cresce con noi ed è per questo che di solito i ricordi più belli sono legati all’adolescenza, l’età della spensieratezza.
In effetti sono due i posti a cui sono più legato nella «mia» Rimini. Il primo è un campo di pallacanestro parrocchiale, che si trova nel borgo San Giuliano.
Quanti sabati pomeriggi trascorsi a giocare in quel campo. Ma soprattutto quante ore spese su quelle scale a chiacchierare del più e del meno con amici che negli anni ho perso di vista ma che non sono riuscito a sostituire con nessuno. Ci sono tornato da poco e il mio cuore si è riempito di nostalgia, mi sono messo in ascolto per pochi minuti e mi è sembrato di sentire una palla che rimbalzava sul cemento e le risate di me tredicenne.
Il secondo posto è un’altalena al mare, dove ho dato il mio primo bacio. Non posso che sorridere pensando alla mia goffaggine, ma so anche che non avrò mai più quella candida innocenza. Ha ragione José Emilio Pacheco: il principio del piacere è allo stesso tempo la sua fine. Come vedete, sono ricaduto nuovamente nel male atavico dei romagnoli: la melanconia. Siamo proprio nati sotto il segno di Saturno.
Devo però ammettere che senza Rimini forse non sarei mai venuto al mondo. Galeotta fu la spiaggia per i miei genitori. Mio padre, con la sua tradizione contadina alle spalle, mia madre, di Bologna e rappresentante di una borghesia manifatturiera, si sono incontrati in questa città. L’avventura estiva si è trasformata in un grande amore. Io sono il frutto di quell’amore, nato all’ombra di un ombrellone.
#Mappe 1 – A Genova di bello c’è la sopraelevata.