Il caso Spotlight è senza ombra di dubbio un film classico, e questo è il suo più grande punto di forza e allo stesso tempo il suo più grande limite. Ma cosa significa esattamente? Per capirlo occorre intraprendere un breve viaggio nel tempo. Il cinema cosiddetto “classico” nasceva tra gli anni Venti e Trenta sul declinare delle avanguardie europee, e ad esse si contrapponeva per la sua caratteristica di rifuggire velleità poetiche e arditezze stilistiche che invece erano proprie di impressionismo, espressionismo e surrealismo, e di puntare alla massima leggibilità dell’immagine e dello sviluppo narrativo. Messo in crisi dai critici/registi della Nouvelle Vague e dalla teoria degli autori, secondo cui il regista non è un mero esecutore ma anzi un artista che deve fare emergere il proprio stile, il cinema classico è sopravvissuto ai mutamenti degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta (la cosiddetta New Hollywood), e gode oggi di ottima salute.
Il caso Spotlight vuole dunque raccontare una storia, e raccontarla nel modo più chiaro e comprensibile affinché essa arrivi diretta alle orecchie e al cuore degli spettatori. La storia è quella dell’inchiesta di Spotlight, la squadra di giornalisti d’assalto del quotidiano The Boston Globe, che nel 2001 portò alla luce non solo gli abusi perpetrati da settanta preti di Boston nei confronti di minori, ma anche e soprattutto le responsabilità dell’allora arcivescovo Bernard Francis Law, il quale nonostante fosse a conoscenza degli abusi non fece nulla per fermare i pedofili, limitandosi a spostarli di parrocchia in parrocchia allo scopo di prevenire lo scandalo.
Contano i fatti dunque, senza orpelli o belletto, quasi che la macchina da presa si facesse umilmente da parte, come se la sua presenza potesse in qualche modo distrarre lo spettatore dalla vicenda nuda e cruda. Campi e controcampi durante i dialoghi, movimenti di macchina dolci, colonna sonora mai dissonante… l’intero apparato cinematografico al servizio dei fatti. L’importanza della fedeltà con cui i dati devono essere trasmessi è anche sottolineata dall’ossessiva frenesia dei personaggi nel registrare la realtà, sempre armati di bloc notes, sempre intenti a prendere appunti, mai disposti ad accettare una testimonianza che sia in qualche modo vaga. In una sequenza molto efficace vediamo la giornalista Sacha Pfeiffer (interpretata da Rachel MacAdams) incalzare un ragazzo vittima di abusi che racconta semplicemente di essere stato “molestato” spronandolo ad essere più preciso: la parola “molestia” è troppo vaga, e la necessità di entrare nei dettagli è più importante del rispetto nei confronti della sensibilità delle vittime.
Anche l’interpretazione degli attori è molto sotto le righe, da Liev Schreiber, il nuovo editor ebreo della redazione che dà il via all’inchiesta, al rilanciatissimo Michael Keaton, il leader di Spotlight, fino ai vari membri della squadra, Rachel McAdams, Brian d’Arcy James, Mark Ruffalo. Come se non volessero offuscare la forza dei fatti con inutili piagnistei. Come se non avessero il diritto di appropriarsi dell’orrore assoluto in cui stanno scavando. Non so quanto questa scelta sia azzeccata: per quanto lodevole sia l’intento, allo spettatore viene a mancare un personaggio in cui identificarsi, un mezzo per entrare anche dal punto di vista emotivo nella vicenda. Non a caso la sequenza più forte e più riuscita del film è quella in cui il personaggio di Ruffalo finalmente perde le staffe nei confronti di quello di Keaton: il primo, dopo aver trovato le prove del coinvolgimento del cardinale, preme per andare subito in stampa, mentre il secondo preferisce temporeggiare. Ne nasce un confronto sempre più serrato e acceso in cui finalmente emerge tutta la rabbia e la frustrazione accumulata non solo dai personaggi ma anche dagli spettatori: “They knew and they let it happen… to kids! Ok? It could have been you, it could have been me! It could have been any of us. We gotta nail these scumbags. We gotta show people… that nobody can get away with this. Not a priest or a cardinal, or a freaking pope!”. Anche la macchina da presa per una volta sembra sottolineare il coinvolgimento emotivo di questa sequenza, alternando campi e controcampi sempre più ravvicinati e incalzanti.
Al termine della visione c’è una domanda inevitabile: può un film come questo cambiare, o perlomeno smuovere le cose? Può aprire gli occhi a qualcuno anche a fronte dell’esposizione mediatica delle molteplici candidature all’Oscar (film, regia, sceneggiatura originale, attore e attrice non protagonisti, montaggio)? Perché non bisogna dimenticare che la storia è vera, i personaggi sono tutti esistenti, e le violenze, le molestie, le prepotenze perpetrate da uomini in tonaca verso bambini e bambine sono tutti reali e documentati. Tuttavia, non dice nemmeno nulla di nuovo. Pochi, almeno in Italia, sono a conoscenza del caso di Boston di cui parla Spotlight. Eppure tutti, al tempo stesso, conoscono il sistema di protezione dei preti pedofili, ben spiegato nel film: la famiglia del bambino molestato scrive al vescovo; quest’ultimo non denuncia il prete pedofilo ma si limita a mandarlo in una sorta di casa di rieducazione (rigorosamente gestita dalla Chiesa); il prete viene infine spostato in un’altra parrocchia, libero di commettere altri abusi. Sotto questo punto di vista dunque il film non dice nulla di nuovo, nulla che già non si sappia, nulla che abbia saputo portare davvero all’indignazione fedeli o non fedeli. Soprattutto i fedeli – perché il film, che non vuole certo essere antireligioso, tiene a specificare la differenza tra la Chiesa come istituzione terrena, e dunque fallibile, e la fede in Dio – dovrebbero dunque essere i più attivi ad estirpare questo cancro che si annida all’interno della Chiesa e che ne sporca il nome. Eppure tutto ciò non accade, e forse questo film, così chiaro e limpido nella sua struttura, non è abbastanza forte dal punto di vista artistico per penetrare davvero le coscienze, e il rischio è che possa essere preso alla stregua di un semplice documentario in grado sì di lambire il pubblico con il suo flusso di informazioni, ma incapace di andare davvero a fondo nel cuore degli uomini. Insomma, che resti un’opera di grande rigore formale, ma buona soltanto per l’indignazione di un giorno.