Gianluca Mercadante, classe 1976, vive e lavora a Vercelli. Ha pubblicato diverse raccolte di racconti, piccoli pamphlet, romanzi brevi e favole per bambini. Molti suoi racconti sono in riviste e antologie. I suoi generi prediletti sono il giallo e il noir. Si guadagna da vivere facendo il parrucchiere. La sua ultima fatica letteraria, l’ideale seguito di Caro scrittore in erba (qui la precedente intervista) si intitola Caro lettore in erba… (Las Vegas ed., Prefazione di Gianluca Morozzi), un indomito e dissacrante vademecum sui pericoli nascosti nell’editoria attuale, non senza un pizzico di malinconia per il passato e, soprattutto, per il futuro della parola.

 

Partirei dalla scuola, visto che è uno dei primi argomenti che tocchi nel libro. Come invogliare uno studente alla lettura, cambiando metodo? Oppure cambiando classici?

Sospetto sia sbagliato l’approccio, che però varia da insegnante a insegnante, mica in tutte le scuole del mondo c’è il professore dell’Attimo Fuggente. Il punto forse è proprio questo: ci sono troppi professori e pochi maestri.

 

Subito dopo guidi il lettore inesperto in libreria, consigliandogli di ‘guardarsi bene’ dalle copertine. Parliamo quindi del cosiddetto paratesto. Personalmente, è da anni che vorrei scriverci un articolo: da quando è uscito La Solitudine dei numeri primi sugli scaffali vedo solo volti misteriosi, replicati all’infinito; così come, dopo Open di Agassi, tutte le biografie sportive riportano un faccione sofferente in copertina… Insomma, mi sento un po’ troppo osservato quando entro in libreria.

Indubbiamente l’editoria, in quanto organismo aziendale, deve gioco forza ricorrere a un marketing di tipo aggressivo se intende sdoganare i propri prodotti, i libri, che in Italia non sono per altro mai stati molto amati, figuriamoci se lo sono ora, quando è molto più divertente scorrere i post su Facebook dal telefonino. Tuttavia, il tentativo non mi convince. E, a quanto pare, non convince in generale. Si legge sempre meno. Peccato. Al di là della qualità dozzinale di certi romanzi, se l’italiano leggesse di più avremmo una classe politica ben diversa e, probabilmente, un Paese migliore. Ma poi come lo guidi, un Paese di teste pensanti? Quali bugie potresti promettere a gente informata, che ragiona con la sua testa? Come li compri i voti senza l’ignoranza?

 

Parli anche dei libri placebo. Mi sento dunque in dovere di tirare in ballo il fenomeno Fabio Volo, fenomeno che detesto a priori pur non avendolo mai letto (ma lo farò). Eppure conosco persone anche culturalmente avvedute che non lo disdegnano…

Io Fabio Volo l’ho letto, invece, almeno il primo, Esco a fare due passi. Che mi ha divertito, lo confesso senza problemi né pregiudizi, anche se io, da editore, non l’avrei pubblicato. Avrei incoraggiato l’autore a insistere, a scriverne un altro, cercando di migliorare il tiro. Cosa che credo abbia fatto, da quel che si dice in giro di lui. Ritengo sia inopportuno demonizzare fenomeni simili: Fabio Volo vende e vende davvero un sacco. Anziché criticarlo a prescindere, dall’alto della nostra spocchia intellettualoide che a nulla porta, dovremmo chiederci perché lui arrivi al cuore di tanta gente e altri no. Ma una risposta vera secondo me non esiste. Ciò che lega un lettore a un libro, a un libro qualsiasi, è un’alchimia che non fa parte di nessun ragionamento cosiddetto “alto”. È come l’amore, in fin dei conti. Mica ragioni, quando ami. Essere amati da così tante persone è un privilegio, spero che Fabio Volo sappia custodirlo con altrettanto amore. E buone storie, se sul serio è in grado di scriverne. I libri placebo cui è dedicato un capitolo di Caro lettore in erba… sono libri finti come le finte medicine. Le buone storie possono trovarsi ovunque – e, di solito, la caratteristica fondamentale di una buona storia è che arriva a tanti.

 

A un certo punto difendi la lingua italiana dall’arrembaggio degli americanismi, nel timore che la impoverisca. Inizialmente mi ha commosso, e in parte sono d’accordo, perché uno dei miei crucci è sempre stato la colonizzazione dell’immaginario ad opera dagli yankee. Il fatto è che ha un fascino irresistibile quell’immaginario, ma noi italiani forse abbiamo preso solo il peggio (l’eterno yuppismo, per esempio). Ma non trovi che sia un po’ nazionalistica come paura? Ricorda certi discorsi del Ventennio…

Per carità, il Ventennio lasciamolo pure dov’è che con questi discorsi non c’entra nulla. Quello che affermo a proposito di ciò che tu definisci “colonizzazione dell’immaginario” nasce dal timore che la nostra memoria storica possa dissiparsi a partire dall’impoverimento della madrelingua. C’è una differenza sostanziale fra le parole home e house, anche se in entrambi i casi stai dicendo “casa”. Una lingua rappresenta sempre la cristallizzazione di una visione del mondo ed è fatale, in base a questo principio, che meno parole possiedi e padroneggi, più la visione del mondo nel quale vivi si restringe.

 

Tu ti scagli, giustamente, contro la tv; la quale, però, ha solo iniziato il processo inarrestabile di erosione cerebrale in atto: ora il testimone è passato secondo me alla cultura digitale, per primi i social network, la cui conseguenza peggiore, per come la vedo, è il drastico calo di attenzione. Cosa ne pensi?

Ho letto molto a proposito di questo argomento e il calo di attenzione lo accuso anch’io, mentre rileggo a computer quello che ho scritto. Infatti, dopo un bel po’ di letture e correzioni eseguite su schermo, stampo e leggo ad alta voce i miei testi, solo così mi sembra possibile lavorarci ulteriormente affinché acquistino la forma finale, quella con cui saranno pubblicati. Il punto è: l’informazione. Il punto è: applicare un metodo d’informazione, cosa che manca alla maggior parte dell’utenza che naviga in internet. D’altra parte, se prendi un computer tascabile e dai a chiunque la possibilità di usarlo, cosa ottieni? Lo stesso caos di sempre, solo che puoi scorrerlo su uno schermino. Nessuno c’insegna che esiste un quanto basta, come nelle ricette. E comunque il sale che va bene al mio palato non è detto che sia gradito al palato dei miei ospiti. Tutto dipende dall’impegno personale di ognuno di noi, dal rispetto reciproco, dalla conoscenza e dalla cultura, ma finché questo lo diciamo io e te, e non la televisione, possiamo farci notte, se ti va. Nulla cambierebbe mai.

 

C’è anche un’altra questione nodale, a mio parere, di tipo più estetico/percettivo: ovvero che la consistenza liquida, amniotica (e ipnotica) della pagina digitale, sta soppiantando quella cartacea, più statica e ‘fredda’. Ogni tanto mi fermo a guardare i libri come già a qualcosa di passato, di inesorabilmente vecchio. Io provo a resistere alla tentazione dell’ e-reader perché sono un tecnoleso pigro e nostalgico. Ma mi chiedo: ha senso voler resistere al futuro?

No, non ne ha, anche perché il futuro arriverebbe a prescindere e, una volta qui, diverrebbe subito il presente e, dopo un attimo, il passato. Ben vengano dunque nuove tecnologie e nuovi modi d’interagire con la lettura, se questo consente, per esempio, una scelta più vasta rispetto alla libreria. Ma il libro, in quanto oggetto, è un highlander, nessun lettore farebbe a meno di odorare la carta, lamentarsi della polvere in casa, per non parlare di quelle doppie, triple file sugli scaffali. Fa tutto parte del gioco – e mi piace pensare che leggere sia anche un vizio. Chiunque coltivi un vizio se ne lamenta, non tollera il nuovo, e va bene così.

 

L’altro giorno, mentre ero in treno a leggere il tuo libro, due signore stavano affrontando una questione importante, da te sollevata proprio nel tuo saggio: gli scrittori impiegati. Uno dei miei sogni è che un artista, non soltanto uno scrittore, un giorno abbia il coraggio di ammettere di non aver niente da dire e, dunque, di voler stare zitto. Il fatto è che ci sono le bollette, le luci della ribalta, l’ego… Non tutti vorrebbero fare la fine di Bartleby lo scrivano, non trovi?

Giammai! E su questo tema, permettimelo, stendo un (im)pietoso velo, perché quattro righe non bastano ad esaurirlo. Non a caso ci ho dedicato quasi mezzo libro, o giù di lì…

 

Ti faccio una domanda cattiva, a proposito del tuo odiato marketing aziendaleditoriale delle major: non trovi che, a un occhio smaliziato, anche il tuo libro, nel suo piccolo, possa sembrare un tentativo seriale di replicare il micro successo di Caro scrittore in erba…? Tanto più che alcuni capitoli, come specifichi nella postfazione, sono già comparsi in altre riviste. E che possa essere un preludio a, chessò: Caro libraio in erba…,e poi Caro giornalista in erba… ecc. ecc.?

E io ti rispondo: perché no? Sul libraio no, non lo farei perché mi manca l’esperienza diretta in campo, e come giornalista credo di aver già dato il mio in entrambi i volumi: non conoscerei tanto a fondo l’ambiente e l’industria editoriale se non avessi visto le cose da abbastanza vicino, grazie al giornalismo di settore che per tanti anni ho praticato. Ciò detto, le persone sono e restano liberissime d’interpretare ogni contenuto di ogni mio libro, incluso l’intero volume, come meglio credono, ci mancherebbe. Quello che avevo da dire e quello che penso l’ho messo nero su bianco, pagina dopo pagina, ma se temessi di essere interpretato, sia sotto una buona che sotto una cattiva luce, perché mai scriverei?

 

Non ho capito se sei contrario, in quanto scrittore, a pubblicare per i grandi editori.

No, assolutamente. Sono scelte, dall’una e dall’altra parte.

 

L’altro giorno leggevo un’inchiesta su Repubblica. Riportavo il seguente dato: il 18,5% degli italiani non fa nessun tipo di esperienza culturale, soprattutto non legge nulla. E sono quasi tutti al Sud: Basilicata e Calabria in primis. Come risolvere questa annosa questione?

Bisognerebbe rivoltare il mondo da sotto a sopra e da sopra a sotto, un bel po’ di volte. Difficile. Oppure crederci, nella cultura, e organizzare iniziative, piccole, dal basso, ma che nel loro piccolo un minimo di rumore lo fanno. A quel punto ci s’incontra fra persone, si confrontano passioni e bagagli culturali reciproci, finché non ci si rimette al tavolino e si organizza dell’altro ancora. Saranno vent’anni che faccio così. Qualche risultato lo si ottiene, ma bisogna sentirsi abitati davvero da una smisurata passione: le delusioni superano le soddisfazioni – e l’effetto è a volte disarmante, si fa presto a tirar su bandiera bianca.

 

A questo proposito. Mi ha colpito molto l’evento che organizzi nella tua città, Vercelli, per promuovere la lettura. Parlacene. Emergono dati interessanti. 

Sono tra i soci fondatori di un’associazione culturale chiamata Libriamoci a Vercelli e da dieci anni, a forza di braccia e di tanta pazienza, raccogliamo da cantine, soffitte e vecchi appartamenti, volumi di cui qualcuno, per vari motivi, decide di disfarsi. L’interessato ci contatta e noi, un po’ come i Ghostbusters, arriviamo sul posto e facciamo piazza pulita. Durante o a ridosso della Giornata Nazionale del Lettore organizziamo poi lo Scambialibri nella piazza principale di Vercelli, piazza Cavour. Il meccanismo è molto semplice: i lettori raggiungono la piazza e accedono al risultato della nostra raccolta, potendo scambiare libri in loro possesso con quello che è stato messo a disposizione sui vari tavoloni. Il tutto, eccetto le offerte volontarie, avviene nella più totale gratuità. Che in tempi di crisi non è poco. Se volete saperne di più, potete dare un’occhiata al nostro blog Libriamoci a Vercelli. Ogni nuovo contatto è il benvenuto, se come noi ama i libri e ama leggere. Se in più fosse bontà sua dotato di buoni muscoli, e volesse senza impegno provare a darci una mano quand’è ora di caricare e scaricare quintalate di volumi, sarebbe magnifico!…

 

Quale libro regaleresti?

Scritti corsari, di Pierpaolo Pasolini.