Dicono che gli italiani abbiano un singolare talento, quello di arrangiarsi. Riescono a ricavare qualcosa di buono da ogni situazione, affidandosi all’intuito e al mestiere. Ne è una prova il nostro cinema, ricco di straordinari artigiani come il geniale truccatore italiano Giannetto de Rossi, che dava vita alle creature da incubo low budget di Lucio Fulci grazie a un po’ di terra e plastilina. Per non parlare dei meticolosi rumoristi dei film di Sergio Leone, come Italo Cameracanna, veri cacciatori di suoni da registrare e trasformare in overture da brivido. Erano i tempi in cui il cinema italiano si confrontava con i film di genere americani, dal classico western al b-movie per eccellenza: l’horror. Dall’incontro di queste tendenze esterofile e la cultura della penisola, nascevano strani e formidabili ibridi, sottogeneri che hanno saputo farsi strada fino ad oscurare la fama della matrice originale, come lo spaghetti western.
La storia del cinema nostrano è piena di film ambiziosi che adottano stili ed epopee altrui, riadattandole ai gusti del nostro Paese, fino a trasformarli in prodotti personalissimi. Solo negli ultimi decenni le scelte sono sempre cadute unicamente su commedie borghesi, qualche giallo e tonnellate di drammi da salotto. Ben altro era il cinema italiano negli anni settanta e inizio anni ottanta, fatto di geniali espedienti ancor prima che da grandi budget. Vedere Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti – al suo primo lungometraggio – sembra riportarci a quell’epoca ormai finita, non solo per la citazione nel titolo – Lo chiamavano trinità con Terence Hill – o per l’ambizioso progetto di importare in Italia il genere supereroico, ma soprattutto per la volontà di conservare una sua identità specifica, replicando l’archetipo solo nei gesti e non nella sostanza.
L’operazione aveva sulla carta più svantaggi che opportunità. Uscire nelle sale mentre impazza Deadpool, il supereroe atipico della Marvel, che conferma da un lato il sovraffollamento nelle sale di uomini in costume e dall’altro il crepuscolo stesso del fenomeno, sembrava una strategia fallimentare. Tutto il contrario. È proprio la bulimia da supereroe a evidenziare le peculiarità di questo prodotto sui generis, che non punta all’originalità, ma alla rilettura di un’epica alla base dell’immaginario di un’intera generazione a cavallo tra ventesimo e ventunesimo secolo. Non solo supereroi, ma anche fumetti e cartoni animati condivisi dai cosiddetti Young Adult, lettori ormai trentenni dei nuovi poemi cavallereschi, che hanno sostituito Orlando e Tancredi con corazze di metallo e spade alate.
Lo chiamavano Jeeg Robot racconta la storia di Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria), piccolo criminale romano che, per sfuggire alla polizia, si getta nelle acque del Tevere ed entra in contatto con la sostanza tossica rilasciata da un bidone. Dopo qualche giorno di disturbi fisici, Enzo scopre di possedere una forza sovrumana, durante il trasferimento di una partita di droga finito male. Da qui in avanti la sua storia si intreccerà con quella dello Zingaro (Luca Marinelli), un malvivente imprevedibile e affetto da manie di protagonismo e Alessia (Ilenia Pastorelli), una ragazza disturbata e rinchiusa in un suo mondo fatto di anime giapponesi, in particolare quello di Jeeg Robot. Il film dimostra una sorprendente capacità nel fondere temi e topoi di genere senza alcuna forzatura. Ci sono le origini, il villain e c’è il dilemma dell’eroe sulle sue nuove responsabilità. C’è persino La Città, il sommo teatro degli scontri di ogni supereroe che si rispetti, che nella fattispecie è una Roma inedita, quasi una Gotham pasoliniana, tra lungotevere, casermoni di Tor Bella Monaca e stadio Olimpico. Claudio Santamaria dà vita a un personaggio credibile nella sua semplicità. Il suo è un eroe delineato da pochi tratti che ci restituiscono l’immagine di un outsider impantanato nella profonda periferia romana e incapace di intrattenere relazioni con i suoi simili. Nel suo tugurio, in compagnia di porno e di budini alla vaniglia, vive alla giornata, trascinandosi in un’esistenza di pura autoconservazione. Sarà la disarmante fragilità – nonché una certa avvenenza – di Alessia a ricollegarlo al mondo, un po’ come avviene nel film Léon tra il freddo sicario e la ragazzina Mathilda.
Ma è nella rappresentazione del Male che il regista Mainetti compie un piccolo capolavoro di métissage cinematografico, riassemblando in chiave grottesca suggestioni provenienti dal Batman di Nolan e il suo Joker al servizio del caso, la spacconeria di Romanzo criminale e le tinte fosche di Gomorra. Il tutto visto attraverso la lente deformante di un fumetto. Luca Marinelli interpreta uno Zingaro feroce quanto insicuro, ossessionato dall’idea di “fare il botto” per poter finalmente lasciare il vecchio scantinato da cui dirige piccoli traffici. Amante della musica pop italiana e nella perenne difficoltà nel conservare la sua leadership tra i membri della banda, lo Zingaro è un cattivo d’altri tempi, puro quanto privo di progettualità, tanto da ricordare, anche nelle fattezze, lo Zanardi di Andrea Pazienza.
Lo chiamavano Jeeg Robot è in fondo un delizioso centrifugato di cultura pop, dove il malvagio invidia l’eroe per le migliaia di visualizzazioni che riesce a ottenere con un video su Youtube (come già accade nel fumetto KickAss di Mark Millar) e il beniamino viene immortalato in murales non molto dissimili da quelli di Banksy. Se c’è un difetto in questo sorprendente lavoro, quello si trova nel finale, dove la rielaborazione intelligente dei temi supereroistici cede il passo a un più deludente scimmiottamento, con inevitabile caduta di stile. Peccato, per un film che è riuscito nell’impresa impossibile di consegnarci un supereroe fatto in Italia, manifesto riuscito di ciò che dovrebbe essere il made in Italy: un prodotto non per forza innovativo, ma curato nel dettaglio ed espressione ultima di un amore incondizionato per il proprio mestiere.