Cosa hanno in comune un norvegese, un giapponese trapiantato in Inghilterra, uno spagnolo e un colombiano? Nulla, a meno che i protagonisti di questa pseudo-barzelletta non siano il norvegese Karl Ove Knausgård, autore dei sei volumi intitolati La mia lotta (Min kamp), dei quali Feltrinelli ha recentemente pubblicato il terzo; Kazuo Ishiguro, uscito nell’autunno 2015 con Il gigante sepolto; Javier Cercas con L’impostore e il lungo racconto di Juan Gabriel Vasquez, Le reputazioni edito per Feltrinelli nel 2014.
Cosa dunque unisce queste personalità profondamente differenti per età, esperienze letterarie e geografia? Su una scala generale la risposta è poco o niente, ma limitandoci alle opere summenzionate un tratto di continuità esiste. Gli scrittori in questione hanno un chiodo fisso che li porta a metter mano alle carte, un’ossessione di duplice forma, che ha un solo nome: memoria.
In tutti questi libri l’ossessione per il dato memoriale prende forma in maniere totalmente differenti, ma resta una costante e, fatta eccezione per Knausgård, il duplice punto di vista attraverso cui il tema è affrontato è sempre diviso tra memoria privata e collettiva. Perché pare essere proprio questo il punto cardine attorno a cui ruotano le idee degli scrittori: la possibilità o meno di possedere una memoria del singolo e di tutti che sia fondativa e le conseguenze buone o nefande della perdita di tale facoltà.
Juan Gabriel Vasquez comincia a scrivere il suo ultimo libro (Las reputaciones) pensando alla città natale, Bogotà, intenzionato a fare una critica sociale e politica della classe dominante nella capitale. La figura utilizzata come filtro prospettico è un vignettista satirico, Javier Mallarino, personaggio d’invenzione benché frutto della fusione tra più personalità esistenti, la cui penna è a tal punto potente, da permettersi di far tremare personaggi politici e proprio attorno ad un incidente accaduto 28 anni prima tra il protagonista e un ministro del governo si snoda la narrazione. Il fuoco però lentamente devia e come Vasquez stesso ammette, la novella, che è più sapiente del proprio autore, prende la direzione migliore, spostandosi dal criticare la fragilità della reputazione pubblica alla fragilità della memoria umana. Il protagonista si trova così invischiato in un magma che continua a mettere costantemente in dubbio le sue certezze mnestiche, la saldezza dei suoi ricordi; come in un labirinto borgesiano, Mallarino dubita costantemente di sé, male si orienta tra visioni del passato che non sa se vere o inventate, nel tentativo di ricostruire quell’accadimento del passato che non può o forse non vuole ricordare.
In una direzione simile si muovono i dubbi costanti della coppia di vecchi britanni innamorati, protagonisti del nuovo libro di Ishiguro, Il gigante sepolto (The buried giant, Einaudi), ambientato nella Britannia del VI secolo d.C. in una dimensione a cavallo tra realtà e fantasia, tra re Artù e i conflitti dei regni barbari. I due anziani, lungo il loro viaggio alla ricerca del figlio e, allo stesso tempo, alla scoperta di cosa sia la “nebbia” (figura a metà tra il “nulla” de La storia infinita e il processo di rimozione psicanalitico) che fa obliare tutti i ricordi, anche i più recenti, si confronteranno con un interrogativo costante: il loro amore è saldo solamente perché non si ricordano del male reciproco? La questione poi trascende la coppia ampliandosi a tutti i rapporti umani: quanto può incidere in essi il gigante della memoria quando non è più sepolto, quando i monoliti delle azioni, anche ingiuste e sbagliate, sono portati davanti agli occhi di tutti? E soprattutto, è giusto e necessario ricordare se così facendo, si rammenta il male? Anche i due vecchi dunque, come il vignettista colombiano, si muovono nell’oscurità (questa volta anche fisicamente nel mondo) tentando un viaggio concreto e interiore verso la conoscenza e la verità, che rimanda all’illustre antenato sofocleo di Edipo, tutto preso dall’ossessione di sapere. Proprio con questa mania la coppia di britanni incede edipicamente lungo le pagine, affrontando questa tragedia non senza paura e disvelando tutto ciò che appare, ma che non è, sia nel mondo che, soprattutto, dentro se stessi («Il tempo solo, l’uomo giusto e buono fa manifesto, il reo un giorno lo conoscerai» dice Creonte a Edipo).
Al contrario di questi esempi, Karl Ove Knausgård, nella sua opera monumentale di auto-fiction in sei volumi di cui lo scorso ottobre è uscito il terzo, L’isola dell’infanzia, sente la necessità di scrivere una vita qualunque, la sua, perdendo centinaia di pagine su dettagli come una merenda tra bambini o creando digressioni altrettanto lunghe sulla disinfezione con l’Ajax della propria casa dopo la morte del padre, partendo da un personalissimo disgusto nei confronti della “fabbricazione” di personaggi e situazioni tipiche della fiction. Il dettaglio memoriale qui è però un dato di fatto, non oscurato né oscurabile, necessario. In quest’opera enorme e talvolta narcisistica, Knausgård intende dimostrare che il senso delle cose e della vita sta proprio qui, nell’hic et nunc del grigiore quotidiano e delle esperienze comuni, nella volontà dell’uomo di non disperdersi in esse. Ed è proprio a questo che serve la memoria: nello sforzo di unità e di opposizione alla centrifuga del mondo, ricordare (e ricordare bene) è l’arma che permette di mantenere la propria integrità (e forse la propria stupenda unicità, parrebbe dire l’autore). Per questo motivo l’associazione con Proust fatta dalla critica non regge nel caso dell’autore norvegese: per Proust, il recupero personale attraverso il ricordo avviene lungo un percorso accidentato, spesso oscuro, per incontri e agguati di ricordi attraverso visioni più o meno distorte dalla lente personale (come per Vasquez) e dall’artificio letterario, che in Knausgård manca completamente: mentre ricorda, Proust reinventa e metamorfizza. Il norvegese, al contrario, dice una realtà che è “proprio quella” e non è altro, è fatto e oggetto e normalità, senza altri sensi simbolici, che fa della comunicazione diretta (lo stile è stato definito «offensivamente prosaico» e la trama «dolorosamente banale») e dell’esperienza condivisibile dal lettore il suo punto di forza, tanto efficace da rendere La mia lotta un fenomeno mondiale ben più letto della Recherche. Come nelle migliori poesie o nei prodotti pop più venduti, il segreto è infatti la possibilità di identificazione del lettore con ciò che in apparenza non lo riguarda; in questo modo si può rendere avvincente anche la noia. Ha detto bene Elisabetta Rasy in un articolo sulla Domenica del Sole24Ore: è per questa serie di motivi che la ricerca di Knausgård è una ricerca del tempo presente, non di un tempo passato.
A questo punto è chiaro come il dato memoriale sia al centro di attenzioni disparate: la memoria per Ishiguro e Knausgård è qualcosa di reale, ineludibile e monolitco, come per Edipo la scoperta dei propri atti; nessuno può scappare da se stesso ed è molto meglio farvi i conti subito che scoprirlo troppo tardi. Anzi, pare proprio che il destino dell’uomo sia legato saldamente a questa indagine, dalla quale, anche volendo, non ci si può esimere. È il compito di ognuno, dicono i due autori, fronteggiare la propria tragedia, assumendo su se stessi la piena responsabilità dello stare al mondo.
Ma è possibile addentrarsi in questo percorso, per quanto impervio, se ciò che cerchiamo non esiste? È possibile affidare alla memoria, che così spesso distorce, omette o idealizza, la fondazione della propria identità? Con questo interrogativo, che possiamo desumere da Vasquez, si scavalcano anche le domande di Ishiguro. È vero che disseppellire tutta la memoria vuol dire disseppellire anche il male, ma è possibile farlo solo se si ha la certezza che quel gigante, là sotto, c’è ancora ed è in buono stato. Sembra invece, nell’esperienza più comune, che questo non sia possibile, perché il ricordo è il primo elemento passibile di inautenticità.
Come fare dunque a sapersi?
Questa forse è una delle due domande che la narrativa contemporanea sta ponendo al mondo; l’altra si gemina da quella duplicità di intendere il concetto di memoria (come lo abbiamo definito inizialmente). Se il singolo è inserito da sempre in una comunità (Aristotele docet), forse in “pericolo” è anche la memoria collettiva? In parte. La memoria dei popoli ha dalla sua la Storia, la scienza esatta (?) dei fatti. Chi esalta questa capacità delle cosiddette scienze storiche, però, dovrebbe anche rendersi conto di come i dati storici siano i primi a poter essere falsificati, creando un danno di proporzioni inimmaginabili, poiché, com’è noto, se un evento viene eliminato dalla storia, dal ricordo collettivo, quell’evento non è mai esistito (non è un caso che, fin dall’antichità, la peggiore pena fosse la damnatio memoriae). D’altro canto, è altrettanto aberrante il contrario: far credere che qualcosa di inesistente abbia avuto luogo davvero.
Questa la tesi del nuovo romanzo di Javier Cercas, L’impostore (El impostor Guanda 2015), che prende le mosse da un fatto reale della Spagna di qualche anno fa. Enric Marco è riuscito a diventare un paladino agli occhi dell’opinione pubblica per azioni che non ha mai compiuto. Divenuto il presidente di una delle più importanti associazioni di ex deportati nei lager nazisti senza mai esserci stato, Marco ha ingannato il popolo spagnolo per ottant’anni, prima di esser smascherato da uno storico poco più che sconosciuto. L’impostore ha tessuto su di sé un ordito di finzioni, una più pacchiana dell’altra, di fronte a telecamere e microfoni, arrivando a reinventare continuamente la propria vita, facendosi eroe di guerra, deportato, cospiratore contro il nazismo e infine antifranchista. Tutto questo in un irrefrenabile desiderio estetizzante di essere altro, di fare della propria vita un’opera d’arte, di considerare possibile un’esistenza fondata sul nulla, eppure convalidata dall’approvazione di tutti.
Ma c’è qualcos’altro oltre al mero narcisismo dietro a questa faccenda? E inoltre, come ha fatto il popolo spagnolo a credere a menzogne tanto macroscopiche? Esiste risposta ad entrambe le domande. Alla morte di Franco nel ’75, la Spagna subisce un processo di democratizzazione piuttosto rapido, dando nel nuovo ordinamento molto spazio agli ex esponenti del fascismo e tacitando i cuori tumultuosi delle persone con un silenzioso patto dell’oblio. Ecco allora il momento in cui Marco entra in scena: intuita la necessità da parte del popolo di una “guerra col passato”, l’impostore sale alla ribalta costruendo su sé stesso la figura-eroe, principe del bene, giunto da un passato oscuro. È così che Enric Marco, per puro diletto personale, diventa l’icona del popolo, degli ultimi e dei sofferenti, lenendo in tal modo possibili tumulti popolari e garantendo, forse molto inconsapevolmente, la sicurezza per la neonata pace democratica. Figure come Marco, impostori e menzogneri, possono paradossalmente giovare in passaggi transitori delicati, veicolando, come in questo caso, spinte tanto eversive e velleitarie. Non ricordare la verità significa salvaguardare una stabilità sociale.
È tramite un inganno analogo che nel libro di Ishiguro la memoria collettiva viene condizionata. Si scoprirà che tutta la realtà dei fatti è una finzione nel momento in cui sarà chiaro che la “nebbia” non è altro che il respiro del drago Querig, incantato da Merlino sotto ordine di Artù per fare appunto obliare i ricordi e con essi le motivazioni del conflitto tra Sassoni e Britanni, che aveva squassato la regione per anni. Dunque, Artù, il paladino della pace, il conciliatore di popoli, abile e clemente condottiero (nel testo presente solo come il ricordo di un fasto antico), si rivela essere un altro impostore, come impostore è Galvano, ultimo cavaliere del re, in vero non cacciatore (come si pensava), ma difensore del drago. Ma c’è anche chi, però, il drago lo vuole morto, per spezzare l’incantesimo e far rivivere le memorie e i torti, ravvivare i fuochi di una guerra estinta.
La dimensione collettiva della memoria quindi si configura come antipodica a quella personale: se per il singolo il problema è ricordare poco, per i popoli ciò che può condurre alla distruzione è ricordare troppo. L’interrogativo, che sottende entrambi i libri in una maniera sorprendente considerando lo scarso rapporto intercorso tra gli autori, pare essere: è più giusto mantenere la pace perché i torti sono stati dimenticati attraverso uno stratagemma, un inganno, o concedere la memoria e con essa rinfocolare il gusto della vendetta, innescando una nuova catena di colpe e rivalse, destinata a non interrompersi mai?
Assieme a questo interrogativo campeggia l’idea abbastanza terrorizzante di un’impossibile pacificazione “naturale” tra i popoli. Se in Eschilo (sempre per tornare ai modelli) i cicli delle colpe vengono interrotti non con la dimenticanza, ma con l’istituzione del diritto da parte degli dei, non potremmo noi confidare oggi, vivendo la nostra modernità così laica e pretenziosa, nel sacro alla stessa maniera. È quindi la disarmante e paradossale conseguenza della modernità il fattore per cui, secondo questi autori, è impossibile trovare la pace senza ricorrere all’inganno. Dunque, la domanda è grave e implica un forte compromesso col concetto di giustizia: cosa è più giusto, ingannare per una pace (però inconsapevole) o ricordare e rischiare spargimenti di sangue senza fine? Quel che è certo è che non si può fare affidamento su un totale oblio o un revanscismo indefesso e che la dimenticanza e l’ossessione (che deriva dal conoscere troppo) fanno da sponda, in quanto estremi, alla stessa condizione di conflitto, la prima perché impedisce la consapevolezza del passato, la seconda perché non permette il compromesso necessario alla stesura del futuro.
L’impostore e Il gigante sepolto riflettono abilmente su questo punto, presentando così delle forti tangenze con i nodi della storia contemporanea in cui questo attrito si verifica, si pensi al negazionismo della Turchia nei confronti del genocidio (parola praticamente vietata) armeno, la cui forzata volontà all’oblio non permette un’accettazione delle proprie responsabilità storiche da parte del popolo turco, o ancora le scuse che Shinzo Abe, premier giapponese, ha rivolto alla Cina per l’invasione di settant’anni fa, durante la Seconda guerra mondiale, il cui modo freddo (“i nostri figli non dovranno scusarsi per sempre”) ha suscitato bisbigli di malumore in tutto l’estremo oriente.
Ma per sanare o prevenire i conflitti con il passato è giusto mentire?
Giova ricordare che la nostra civiltà oggi è intrisa dal timore dell’inganno, dal sentore che qualcosa che non è vero venga spacciato per verità e che questa non venga mai alla luce. Sarà complice l’informazione di massa o l’impenetrabilità che hanno raggiunto alcuni piani della società (come le decisioni politiche, militari o economiche di uno stato), ma sono sempre più in voga teorie su complotti e dietrologie che vedono in qualunque atto o evento una manifestazione di falsità, dietro alla quale i paladini della verità, quelli che vedono e quindi sanno o per lo meno credono di farlo (torna di nuovo alla mente Edipo), sono tenuti a rintracciare la realtà più pura. Questo proliferare, quasi pestilenziale, di organi di informazione secondaria, la maggior parte delle volte scadenti, attecchisce in una totale sfiducia delle persone nella Storia e in ciò che essa trasmette.
Il danno potenziale di non credere più a nulla è immane ed è per questo, forse, che la letteratura si è fatta ricetrasmittente del fenomeno, mettendo in luce come, a volte, un inganno possa essere l’unica via di redenzione e compromesso per popolazioni orgogliose e riottose nei confronti dei torti subiti in un passato, che è errato amputare, ma che non deve essere un luogo in cui impaludarsi nel risentimento.
La memoria può essere dubbia e fumosa, ma si basa sui fatti, sulla realtà più chiara ed evidente, per questo motivo non andrebbe ingannata; è ciò che abbiamo, sebbene sia poco, per ricordarci chi siamo e le coordinate entro cui ci muoviamo e sebbene quelle personali possano essere labili, influenzate dall’emotività soggettiva, quelle collettive hanno il dovere di essere fissate. Quest’operazione di ricostruzione e identificazione è necessaria a proseguire un cammino sia come singoli che come civiltà; tuttavia, è utopico, dice la letteratura oggi, raggiungere una condizione di compromesso con gli eventi tale da permetterci di non ingannare il presente cancellando il passato, di accettare quest’ultimo e, con compromesso, di proseguire in avanti. Finché non saremo disposti ad accettare gli avvenimenti per quelli che sono, la cosiddetta realtà dei fatti, avremo sempre bisogno di un mago o di un impostore che ci garantisca attraverso un inganno quel mondo di giustizia e verità idilliaca da opporre a quella effettiva, la quale non siamo pronti a sostenere, dicono i fatti, non siamo pronti, dicono gli scrittori, eppure dovremmo.