Giovedì 31 marzo, alle ore 21, Mathias Enard sarà ospite del festival di letture di Città di Castello, CaLibro 2016. In occasione della serata in due atti Il fantasma e la bussola, Énard dialogherà con Filippo Tuena, autore del recente I memoriali del caso Schumann (il Saggiatore 2015) ed esperto di arte e musica come Franz Ritter, il protagonista di Boussole (Actes Sud 2015).
C’è un oggetto che campeggia al centro di Boussole, il romanzo con cui, alla fine del 2015, Mathias Énard ha vinto il premio Goncourt (e che alla fine dell’estate uscirà in Italia per e/o). Si tratta, naturalmente, di una bussola, che però segna sempre l’Est invece del Nord. È un regalo che il protagonista e narratore, Franz Ritter, musicologo viennese di origini francesi, ha ricevuto da Sarah, la donna di cui è innamorato e che ogni giorno, come un fantasma, infesta i suoi sogni, i suoi pensieri, i suoi ricordi. È un libro di ricordi e di memorie, Boussole, un romanzo in cui, però, ricordi e memorie si intrecciano a comporre una mappa che mira, come indicato dalla bussola, verso l’Oriente. Strumento inutile per orientarsi, questa bussola è il simbolo di una ricerca ostinata di tutto ciò che l’Oriente contiene ed esprime del mondo occidentale, e viceversa.
Poco importa che quest’oggetto sia un semplice artificio, ciò che conta è la sua forza simbolica, che unisce i due protagonisti del romanzo – uno in praesentia e l’altro sempre in absentia – e che traccia la rotta di un viaggio che riprende e doppia quel percorso storico e politico che aveva caratterizzato la vicenda di Zona, il capolavoro di Énard, pubblicato in Francia nel 2008. Là, Francis Servain Mirković, dopo 15 anni di lavoro nei servizi segreti di diversi stati, si apprestava a consegnare nelle mani di un emissario del Vaticano documenti importantissimi relativi a intrighi e intrecci della recente storia della “zona”, una regione a cavallo tra i tre continenti affacciati sul Mediterraneo: nella sua esperienza confluivano storie e memorie, vite e morti, vittime e carnefici, conflitti e alleanze che nel corso dei secoli hanno tessuto un’unica trama in grado di unire mondi che oggi siamo abituati a considerare diversi e distanti. Allo stesso modo, Franz Ritter contemplando la propria biblioteca e ripercorrendo secoli di ricerche, studi, relazioni diplomatiche e imprese artistiche, arriva a scoprire che «Occidente e Oriente non compaiono mai separati, che sono sempre intrecciati, presenti l’uno nell’altro e che queste due parole – Oriente, Occidente – non hanno altro valore euristico che quello relativo alle direzioni irraggiungibili che designano»[1].
A questa diversa predisposizione all’azione si lega un’altra differenza che separa le figure di Servain Mirković e Ritter: il ruolo che in Zona giocavano la storia e la politica – i conflitti religiosi ed etnici, gli odi razziali e le rivalità nazionali – in Boussole è ricoperto dall’arte, in tutte le sue sfaccettature: dalla poesia alla musica, dalla letteratura all’architettura. Ai Gavrilo Princip e ai José Millán-Astray si sono sostituiti gli Hafez, le Annemarie Schwarzenbach e i Franz Listz, e più ancora gli orientalisti e gli “occidentalisti”, figure di studiosi e sapienti che nei secoli sono riusciti a fare da ponte tra i due mondi (come l’austriaco Hammer-Purgstall). Alla dimensione dell’agire, insomma, si è sostituita la dimensione del conoscere e del rappresentare. Anche i campi di battaglia ritornano in Boussole solo in quanto luoghi dello studio archeologico, mete di un turismo erudito fatto da chi cerca le tracce del passato per trasformarle in monumenti della Storia. Ecco perché all’agente dei servizi segreti si è sostituito qui un professore universitario.
Quella di Franz Ritter, peraltro, è una vera e propria ossessione per l’erudizione, condivisa con la sua anima gemella Sarah. Per entrambi ogni aspetto dell’esperienza è potenzialmente un materiale valido per una pubblicazione accademica. Tutto può essere catalogato, repertoriato, studiato e interpretato; tutto può diventare materia dell’opus magnum che Franz ha cominciato a immaginare, dal titolo Des différentes formes de folie en Orient, di cui le sezioni del romanzo compongono i diversi capitoli. Lo studio sembra l’unico mezzo per ricostruire un’immagine autentica e integrale della realtà, perché lo studio consente di riscattare dall’oblio storie e memorie che il tempo aveva finito per seppellire. Énard, lo scrittore sciamano, presta così al suo personaggio la proprie doti di medium e lo pone al centro di una lunga notte di colloquio con i morti, a cui la sola, ideale presenza di Sarah presta una sponda nel mondo dei vivi.
«Se solo fossi capace di far qualcosa di diverso dal rispolverare vecchie storie stando seduto nel mio letto»: c’è una consapevolezza amara nelle parole di Ritter, che conosce bene la consolazione che può dare un lavoro di confronto continuo con ciò che è stato e non può più cambiare («la compagnia rassicurante delle tombe» di cui si dice a un certo punto), ma che allo stesso tempo sembra vanificare ogni scoperta, annientandola in quell’orizzonte piatto che prima o poi toccherà a tutti raggiungere.
«… noi ci incrociamo, ci corriamo dietro, per anni, nell’oscurità, e quando pensiamo finalmente di tenere delle mani nelle nostre, la morte ci riprende tutto».
È una sorta di pulsione di morte quella che agisce nel viaggio di Franz Ritter tra i sentieri della storia e della memoria. Una morte che incombe su ogni ricordo, inquinando anche ciò che più sembrava recuperare l’afflato epico di Zona, ovvero il racconto della rivoluzione iraniana che occupa una lunga parte del libro, ma che viene subito azzerato da una catena di morti e scomparse in cui la vicenda si conclude. La morte è necessaria affinché erudizione e memoria possano costituire quella rete di sicurezza che garantisce alle storie degli uomini di non perire mai, sopravvivendo anche all’azione distruttrice dello Stato Islamico, che si profila negli stessi luoghi che rivivono nella memoria di Ritter. Allo stesso tempo, però, la morte sottrae uomini e storie dal flusso del tempo, trasformandoli in semplici oggetti di conoscenza, esposti alle manipolazioni di cui anche il sapere sa essere capace, ma soprattutto rendendoli estranei ai nuovi rivolgimenti della Storia.
Personaggio morituro (gli è stata diagnosticata una misteriosa malattia terminale), Franz Ritter risulta così anche un personaggio mortifero, confinato com’è a un ruolo di manutentore inerte del passato e del ricordo. Franz Ritter è l’emblema di un Occidente che non è in grado di scoprire e conoscere se non riducendo, immobilizzando. È successo così con l’Oriente, inquinato da secoli di orientalismo e trasformato in uno specchio delle percezioni e delle elaborazioni occidentali: «Gli Orientali non hanno alcun senso dell’Oriente. Il senso dell’Oriente, siamo noialtri Occidentali, noialtri “romani”, ad avercelo». È successo anche con il grande affresco della civiltà tratteggiato in Boussole, che si realizza soltanto a patto di estromettersi dal corso del tempo e della Storia.
Questa conclusione sembra dire qualcosa di importante sul percorso poetico – e forse anche ideologico – di Mathias Énard. Il grande fiume della Storia, che in Zona ancora veniva fecondato dal sangue delle battaglie – oltre che dal furore della passioni – che univano in un solo mondo Oriente e Occidente, in Boussole sembra essersi seccato, o addirittura astratto nell’immagine di un passato ridotto a testo. In questo romanzo della camera chiusa, lo spettro del destino fa sentire la sua natura opprimente, ben rappresentata dall’asfittica reclusione domestica di Franz Ritter, malato terminale e ultimo interprete di questa civiltà occidental-orientale che si ritrova unita qui, non più nel rumore sordo delle battaglie, dei conflitti e delle morti, ma in quello – ben più soave, eppure profondamente più letale – del canto, della poesia, della letteratura, della scoperta archeologica. Resta solo un dubbio. Che l’immagine su cui si conclude il romanzo sia il segno di una definitiva sconfitta oppure la stilla di una speranza possibile per il futuro.
Nella lettera con cui Sarah ha nuovamente fatto irruzione nella vita di Franz e su cui si apre il romanzo è contenuto un suo articolo su una popolazione indigena del Sarawak, in Malesia, e sui riti cannibalici che vi si praticano. Si tratta di “cannibalismo simbolico”, con cui si celebra la morte dei propri cari. I corpi vengono posti in anfore di terracotta e lasciati a decomporsi, il liquido di decomposizione viene fatto colare fuori e raccolto in un contenitore. È il «vino dei morti», bevuto per prolungare la vita dopo la morte, ma anche per ricongiungersi con la morte nella vita. Ecco allora la domanda: appropriarsi di ciò che è morto, letteralmente incorporarlo – nella mente così come nelle viscere – può essere davvero il mezzo per prolungarne la vita, oltre che la memoria?
A tener fede alle abitudini di Franz Ritter, si sarebbe tentati di credere che questa pratica religiosa non sia altro che un’oppiacea consolazione. Come sempre, però, quando religione e superstizione s’intrecciano, nulla risulta più così sicuro.
[1] Questa e le seguenti traduzioni sono di chi scrive.
Mathias Énard, Zona, Rizzoli, Milano 2011, 496 pp. 22€