Da qualche parte, Albert Camus scrisse che la Resistenza ha fatto tanto per la letteratura. Facendo pagare a una generazione di uomini il prezzo concreto della scrittura, ha temprato i letterati a misurarsi con il peso bruciante delle loro parole. Qualcosa di simile dev’essere successo a Boualem Sansal, che con Camus condivide il paesaggio algerino, l’emarginazione dai compagni e una fortuna, dolorosa, trovata soprattutto nel pubblico francese. In patria Sansal è trattato come un reietto, sottoposto a continue minacce, mentre le sue opere vengono pubblicate altrove. Nonostante ciò non ha mai scelto di abbandonare l’Algeria, anzi: ha sempre raccolto dalla sua personale resistenza l’amore per la misura e per un pensiero che sa farsi chirurgico, capace di ponderare i torti e le ragioni. Al suo pubblico europeo, quello che sulla rivista Lire ha descritto la sua ultima opera come il miglior romanzo del 2016, ricorda che «le società liberali occidentali sono società terrorizzate, che hanno paura di dire quello che pensano. Io che vivo in Algeria, che sono stato minacciato un sacco di volte, non mi sento in pericolo».
E il suo ultimo romanzo entra in pieno nel problema. 2084, La fine del mondo (Neri Pozza 2016) immagina un futuro distopico, in cui il profeta Abi, delegato del dio Yölah, ha dato i natali all’impero dell’Abistan: sconfinato, schiacciante e soprattutto capace di sottomettere l’intero Globo a un totalitarismo religioso. Lo scenario è asfissiante. La struttura dell’Abistan trabocca di apparati inquisitori capaci di portare l’angoscia anche nei pensieri più intimi. Le giornate sono scandite dai riti collettivi che spesso sfociano in punizioni negli stadi, con i corpi dei sospetti makuf (propagandisti della Grande Miscredenza) dati in pasto a folle terrorizzate e lasciati poi per strada alla fame dei cani randagi. È una prigione priva di confini geografici (la Frontiera esiste solo come mito, tutti sanno che «sulla Terra non c’è che l’Abistan») e temporali. Già, perché il 2084 è l’anno in cui il passato dell’umanità è stato azzerato. Tutto ciò che è esistito prima della rivelazione di Yölah ad Abi (lingue, città, uomini…) ora si trova in un pozzo nero, ricolmo di cadaveri e macerie. Uno sfondo nebbioso rimosso dalle nuove generazioni.
Il talento di Sansal si esprime anzitutto nel creare un immaginario vivido, concreto, ricco di dettagli che descrivono una vita quotidiana fatta di oggetti, vestiti, parole e cibi, ma tuttavia un immaginario artificiale: capace di allentare i vincoli troppo stretti dell’allegoria sull’attualità politica e facendo così di 2084 una vicenda universale del rapporto tra l’uomo e l’ideologia. Nella costruzione letteraria dell’Abistan, delle sue strutture politiche e culturali, Sansal dosa sapientemente ingredienti della teologia e del diritto. Il riferimento al fanatismo islamico è evidente, ma il gioco funziona anche se si immagina l’Abistan come una struttura comunista o fascista. D’altronde, per Sansal, il confine tra il totalitarismo politico e quello religioso è abbastanza sottile e, oggi, dettato da convenienze storiche. Afferma in un’intervista: «erano tutti sistemi che si assomigliavano, ma non hanno raggiunto lo stadio supremo in cui il Capo appariva allo stesso tempo invisibile, immortale e sovrumano. Le dittature del passato erano politiche, qui sono religiose e il capo riesce a essere invisibile e ossessivo».
Un talento del genere è a tutti gli effetti un talento letterario, che fonda la necessità di scrivere su una valutazione filosofica del presente e, a quel punto, scrive. Sansal non dimentica di usare le potenzialità retoriche della parola («l’aria gelida era un fuoco ardente, carbonizzava senza pietà i vermetti che gli divoravano i polmoni») e di ricorrere a molti ferri del mestiere. Sono particolarmente forti alcune irruzioni del narratore onnisciente in mezzo a passaggi dominati dal discorso indiretto libero. L’inserimento di finti articoli di giornale, dispacci militari e salmi religiosi arricchiscono alcuni passaggi del testo facendone quasi dei pastiches.
Con 2084, La fine del mondo, Boualem Sansal si è trovato in un dialogo spontaneo con Michel Houellebecq e il suo Sottomissione. È stato un aggancio che di certo ne ha favorito il successo editoriale francese, piazzando quest’opera sul binario fortunato delle polemiche sull’islamofobia. Da molte parti, anche in Italia, si è scritto che 2084 ha il merito di essere una versione più spietata di Sottomissione. Tuttavia, l’opera di Sansal potrebbe essere fatta di un’altra pasta e, probabilmente, di una sostanza più corposa. Quella della Resistenza di Camus, quella che porta lo scrittore a masticare bene i pensieri e le parole. A sentirne il bruciore e il rischio. Se Houellebecq ci racconta la fine della libertà, da parte di chi per apatia l’ha lasciata dissolvere in un molle nichilismo, Sansal ci fa sentire il desiderio doloroso di chi la libertà la scopre d’un tratto, in un meandro della propria mente e si trova a portare la propria vita davanti al muro (metaforicamente parlando, non è spoiler!) pur di strappare quello che di colpo l’esistenza gli chiede. All’inizio del libro, il protagonista, Ati, recluso per malattia su una montagna sul tetto del mondo, sente scivolare dentro di sé una crisi religiosa. Qui Sansal ci regala le sue pagine migliori: appassionate, drammatiche, psicologiche e persino filosofiche. Una vera e propria fenomenologia della crisi interiore. Prima un tuono forte quanto la scoperta del bene e del male di Adamo. Poi i sensi di colpa, l’angoscia di fronte all’evidenza sempre più forte: «quell’episodio avrebbe innescato un processo insidioso che lo avrebbe portato alla ribellione». Ati cerca di interrompere questo slancio, ma è inutile: da allora nulla rimane più come prima. «Che cos’è la frontiera?» si chiede, «che cosa ci sarà mai dall’altra parte?». E più avanti: «se c’era una frontiera, la si poteva attraversare, anzi, la si doveva attraversare a qualunque costo, tanto formidabile è la possibilità che dietro ci sia la parte mancante della vita».
2084, La fine del mondo è sì «molto peggio di Sottomissione» (sono parole di Houellebecq). Diciamolo pure: è un libro che fa male. Ma non perché descriva uno scenario più spietato. Piuttosto perché se Houellebecq in tale scenario collocava una noia decadente, Sansal inserisce invece un desiderio vivo, dolorante, che batte i pugni contro il vetro per non soffocare. A far male è l’amore disperato per la libertà: quel dolore così acuto che speri ti faccia svenire per smettere di sentirlo, e invece ti tiene sveglio, vigile, ti condanna a desiderare altro futuro, oltre la decadenza.
Boualem Sansal, 2084, la fine del mondo, Neri Pozza, Milano 2016, 276 pp. 17€