Mappa di una regione inventata

Gira in rete da qualche anno una cartina dell’Italia futura. Diverse regioni sono scomparse o quasi, erose e smangiate dall’avanzata del Mediterraneo. Non fa eccezione la Puglia, divisa in due da una potente voragine azzurra. Del tacco resta solo il Salento, che affiora dal mare come un’oasi di noia o fiera autarchia.
Che questa cartina sia una valida ipotesi scientifica o piuttosto una suggestione da ormai matura presa di coscienza circa gli sconvolgimenti climatici in atto, non ha importanza: di certo oggi la Puglia c’è ancora. I pugliesi un po’ meno.

I pugliesi evaporano. Muoiono, emigrano. Fino a qualche tempo fa non esistevano neppure. Una volta fatta la Puglia – passando cioè da un plurale storico a un più turistico e forse artificioso singolare – restavano da fare ancora i suoi abitanti. Una volta inventati, quelli hanno continuato a fare come i loro nonni: e cioè andandosene, sognando. Fino agli anni ’90 nessuno sfuggiva a quest’assunto.
«Ma poi c’è stata una bolla, tempo fa» – mi immagino da vecchio a raccontarlo al figlio piccolo di amici marocchini su una piccola spiaggia pugliese, imbiancata dal sole – «per cui abbiamo pensato che si potesse restare. Abbiamo pensato male, figliolo. E adesso vai a fare il bagno.»
Il bambino si alza, sgambetta sulla poca sabbia che ci separa dall’acqua e si tuffa. Mi guardo intorno: il cielo è giallo, la spiaggia ridotta a un filo d’argilla, di quella che i turisti grattavano via dagli scogli e spalmavano su tutto il corpo, un’estate a Otranto, manco fosse un magico unguento.

Immagine successiva: le luci artificiali che di sera glorificano il centro storico di una città che potrebbe essere Trani o Barletta. Ci si infila in un grazioso locale di plastica, in un vicolo di pietra, per bere qualcosa di caldo che ricostituisca dall’umidore serale. Poi siamo fuori, ma ancora dentro la bolla. Dall’interno della bolla, ricorderò ancora da vecchio, avevo una vera e propria ossessione per questa parola: evaporati. All’epoca erano miei coetanei, e quell’epoca è ora, mentre scrivo. Loro invece sono altrove, vivi e morti insieme.

(Sempre in quella bolla, che ancora non scoppia, ho un problema coi piani temporali: non so o non oso guardarmi indietro per raccontare ciò che è stato, per quanto già incancrenito in storia. Vorrei stare invece nel futuro, per raccontare il presente. Questo presente.)

Quanto ai morti, quest’altra divisione speciale del battaglione degli scomparsi: sono i vecchi, quelli di oggi che lasciano vuoti certi paesini edificati a partire da una sola strada dritta come una fucilata – come scrisse Luciano Bianciardi passando per questi stessi basolati e viali di pietra. E se non sono i vecchi, sono i morti che muoiono infamati dal cancro, specie nella zona in cui si incrociano due provincie, quella dell’Ilva e quella dell’Enel, appaltate alle massime contraddizioni di un secolo che non si arrende a passare.

Marco Montanaro - Mappe

© Daniele Argentiero

In questo continuo slittamento capita che i piani temporali si sciolgano in visioni come l’ostia minima dell’aspirina in un bicchiere d’acqua. Sono idee guardate, sconnesse tra loro. Chi si cura del raccordo? Senza raccordo, non resta che una mappatura onirica, una cartografia inventata.
Così adesso sono nei miei ventitré anni, a qualche metro da me sulla spiaggia di Campomarino c’è Fabio Volo con un boxer rosso fuoco. Non gli do importanza, perché l’importanza è tregua e distanza dalla parola data: ascolto invece l’amico che è con me. È uno dei rari evaporati che ritornano, una sorta di revenant. A Milano si occupava di finanza – luogo comune pari e contrario alle motivazioni del ritorno: stanchezza, obblighi familiari, curiosità per il cool che si è affiancato al kitsch delle vecchie sagre di paese trasformate in festival itineranti.

«Alla fine» dice l’amico «se la prendi come fosse un’unica grande città, stare in Puglia è come stare a Milano. Al mare di mattina o in pausa pranzo, la sera concerto a Bari o nel Salento.»
Alla fine: e sono allo specchio ma lo specchio è d’acqua, tutto è d’acqua sul porto di Taranto slavato dall’umido dell’ultimo viaggio in pullman per il mio definitivo ritorno dal nord, giusto qualche anno prima del mio amico. Vendola non è ancora l’ecumenico governatore di una regione che scopre piano se stessa; in quegli ultimi istanti da evaporato mi ripeto le stesse favole edificanti che ascolterò e riascolterò in futuro per convincermi che il ritorno non è poi la fine del mondo purché si resti connessi col mondo: prendila come una città, prendila come un’unica grande città… Una nenia urticante buona per produrre tomi di sociologia di un territorio ancora inesistente.

Dunque l’idea della città-regione è falsa, mendace, il quinto emendamento di corregionali che esistono insieme a partire da un sentimento di comune inesistenza: eppure nel tempo si coagula in uno strano magma sul dorso di un vulcano che si credeva spento. La lava come processo e processione. Il Venerdì Santo da Canosa a Taranto si cammina ancora insieme. Le donne in lutto e i pellegrini che rievocano il terremoto barcollando tra astanti Raffomuniti. I crociferi e il peso in danaro delle croci autocostruite a Francavilla. Il martirio, la colluttazione con se stessi e il sacrificio per disvelarsi, uscire dalla caverna e scoprire che le ombre che ci confondevano non erano che le stesse nostre. Frugarsi nelle tasche per trovarci la sabbia delle spiagge che non sapevamo d’avere, e che frequentiamo adesso – lo raccontiamo su Instagram – da aprile a novembre.
Il sacrificio: ciò che non eravamo in cambio di ciò che non siamo, doppia negazione che fa un’identità fatalmente condivisa, mentre Vendola si incatena sulla scogliera di Polignano a Mare e si lascia divorare da quel ceto-DC che non scalfirà neppure dall’interno («Io non sono del potere, io sono nel potere!», cantava Nichi nei suoi comizi improvvisati), ancora in attesa di Perseo, perso tra nuvole e lenzuola a cavallo di un Pegaso col caschetto biondo. Nel frattempo Caterina Caselli infila un guanto di stoffa zebrata e poi l’intera mano guantata nella gola di Giuliano Sangiorgi, gli strappa l’ugola e gliela sbatte sotto il naso su uno dei tavoli di legno del Mata Hari di Cutrofiano. Sul palchetto al centro del locale c’è ancora il sangue di Giorgio Canali, che ce lo ha lasciato la sera prima prendendo a testate il microfono durante il bis. Più in là delle foto incorniciate dei primi concerti di Capossela. Ho ventiquattro anni e mi annoio facendone un dramma, come si conviene, allora ascolto la Caselli che si fa chiara e limpida con Sangiorgi: «Tira fuori la tua vera voce» dice. La Caselli parla a Sangiorgi come se parlasse alla Puglia intera. «Squàrciati, decàpitati, ma tìrati fuori.»
Ancora sacrificio: come altri gruppi pugliesi, a inizio millennio i Negramaro inseguono lo spettro di Thom Yorke più che il gracidare di quell’antico ulivo che è Uccio Aloisi; inizialmente derisi per quei falsetti isterici prodotti in fumose sale prove leccesi, pian piano Sangiorgi e compagnia si scoprono fieri di quel tipico eccesso da idiot savant che non di rado consente il più autentico accesso a ciò che davvero sentiamo di essere.
Così, mentre i Negramaro diventano un supergruppo che può permettersi di interpretare – e dunque imitare, scimmiottare – solo se stesso – come del resto accade alla città-regione in quegli anni – Caterina Caselli si fa bambina minuscola sulla sua sedia di legno del Mata Hari e da lì batte le manine tutta contenta.
È lei la nostra prima spettatrice, la nostra prima fan.
Mi addormento.

Marco Montanaro - Mappe

© Daniele Argentiero

Alla fine custodire visioni è del tutto simile a possedere una sterminata biblioteca, però virtuale, i cui scaffali invisibili si riempiono e si svuotano continuamente di singolari tomi-allucinazioni. Ecco, quantomeno le visioni non fanno polvere. E a volte cambiano la direzione, altrettanto immateriale, impressa dalla storia. La storia che diceva: non sarete, se non scissi.
Nelle Puglie prima della Puglia ci si affidava soprattutto all’udito. Sapevi dove non eri soprattutto ascoltando gli idiomi locali. La parlata. Anche questo ci divideva all’interno: in assenza di qualsiasi metro di paragone, i salentini venivano scambiati per siciliani, certi tarantini per lucani e i foggiani per campani. Anche le nostre mafie non erano che miseri e litigiosi spin off di ’Ndrangheta e Camorra. E i paesaggi seguivano lo stesso dorso frastagliato, del tutto simile alla schiena di uno stegosauro, dei rispettivi dialetti: la Capitanata come una litania notturna, la lingua di costa adriatica bianca e azzurra come un sottofondo bouzouki in maggiore, il giallo di un sole sempre a picco e vorticante come un minuto di silenzio nel cielo del Salento.
Il rimedio esterno era allora quello istrionico, mediatico, da idiot senza savant; molto prima che un vecchio e sempre uguale a se stesso Iggy Pop suonasse a Melpignano per conto di una nota marca di jeans, ecco prenderci l’orgoglio per il terrunciello, per Lino Banfi, persino per Carmelo Bene nella sua versione depurata da ogni miasma di profondità; involontari antenati, tutti quanti, di altri istrioni dell’identità ritrovata: Checco Zalone, Caparezza, gli stessi Negramaro, fino a Emilio Solfrizzi prima e Alessio Giannone poi, quando Puglia e Italia potevano essere serenamente accostate senza tirare in ballo lo sbarco degli albanesi, l’Italsider o la Sacra Corona Unita – a fine millennio anch’essa romanzo finalmente compiuto, non più costola d’altra criminalità.
E forse fu proprio la fine di quell’accesso massimo di istrionismo che è sempre ogni mafia visibile, a dare avvio a un’altra visione, stavolta puramente politica.

Tra le ceneri della mafia a Molfetta o a Mesagne – il parallelo con Corleone per dare al resto d’Italia il polso di una regione ancora inesistente – si raccolsero altri magmi indipendenti sul dorso del vulcano. Nel barese La Capagira e più giù Italian Sud Est davano corpo a un desiderio di identità compiuta e agibile persino in seno alle contraddizioni più spinte. La Puglia come terra mitica, universalmente magica e corrotta. La corsa contro il tempo dell’erosione e dell’irrisione che colpiva tutto l’Occidente riguardava finalmente anche noi. Volevamo starci, a modo nostro. E così Vendola non faceva politica ma cantava in street parade allestite per tutte le Puglie, costruendo consenso e una rete affettiva che si sarebbe fidata ciecamente di lui almeno fino alla prima elezione. Il griko iniziava a impastare il leccese che impestò il giamaicano che impestò il brindisino che intanto veniva accerchiato a nord dal barese e dal foggiano; e Cassano era l’erede dell’arabo Hassan – mancavano dai tempi dell’arbëreshët e del romani questi inserti linguistici, che ancora sarebbero continuati con l’arrivo dei tecnicismi della smart life da Silicon Valley: quando avremmo sognato anche noi un’economia compiutamente postumana, un grande prato pulito in cui potessero pascolare, come pigre pecore elettriche, le più algide startup pornotecnofile.
Ci ubriacavamo di sapone per fare bolle dal naso e dal culo di questa rinnovata pulzella in vetrina – la Puglia migliore, la Puglia al singolare –, orgogliosi persino della dittatura dell’acciaio, degli ospedali che sarebbero spariti come gli stessi evaporati – coerentemente, dal momento che in futuro non avremmo avuto più nessuno da curare.
Avremmo poi scoperto che il ceto che divorava Vendola era un drago che sputava diossina; e noi docili e incompiuti basilischi di Sternatia, tutti presi nel costituire cooperative sociali da intitolare a Lina Wertmüller.

Marco Montanaro - Mappe

© Daniele Argentiero

Quando mi sveglio, il Mata Hari è scomparso: da perfetta spia del divertentismo locale ha cambiato nome, anonimo e infestante come l’infernale aria gaddhripulina qualche chilometro più a ovest.
Ma adesso sono ancora altrove, a Valenzano, nella sala d’attesa dell’Agenzia Regionale per la Tecnologia e l’Innovazione. Sto per sostenere un colloquio, presentare un progetto, intessere relazioni. Tutto è pulito, intorno a me, e i manifesti e i banner accanto alle piante grasse dicono hub, hotspot, hacking, coworking. Non sono in Puglia e neppure in Italia: sono in Europa, nel mondo.
Sono nella visione e nel progetto tanto di Nichi Vendola quanto di Zaha Hadid. Sono nelle conseguenze implicite negli ammonimenti di Giovanni Lindo Ferretti dalla piazza, ancora semivuota, del convento degli Agostiniani: quando ci aggiravamo in uno spazio deserto tra uno stand di pezzetti di cavallo e un altro di magliette dei CCCP, certi che l’antica favola del popolo e del piatto di lenticchie non svilisse ma esaltasse la Taranta, parlando in sostanza non tanto a noi quanto ai nostri antenati che si erano lasciati studiare dallo sguardo da scaltri entomologi di Lomax e De Martino.
Sono nella squallida toilette dell’università del Salento, nel 2005 e nel 2015, colpito dalla vigliaccheria di un virus gastrointestinale: in aula il professor Carlo Formenti anticipa le teorie che esporrà poi su Micromega – altre bolle: la net, la new e la sharing economy, mentre sulle piastrelle leggo i numeri di telefono di trans e puttane ancora del tutto inconsapevoli.

Ne incontro a bizzeffe nelle campagne tra Valenzano e Bari, dopo il colloquio all’ARTI. Prima di tornare verso sud avevo deciso di mettermi alla ricerca del cimitero polacco, perso da qualche parte tra filari d’uva e discariche di scatoloni catodici e coccio di cessi rotti, ma ho trovato solo questi ragazzoni e ragazzone nere che si riparano dal sole sotto ombrellini a spicchi multicolore, in piedi accanto a sedie di plastica fornite – così ho sentito – dagli stessi contadini della zona. Il cimitero però è chiuso e ogni tratturo si richiude a vicolo cieco su se stesso, la superstrada si intravede ma non si sa come raggiungerla. Un gruppo di capre e montoni al pascolo ostruisce il passaggio, incrocio lo sguardo del pastore annerito dal sole, mi intorpidisce il sonno per la calura che solo qualche ora prima avrei voluto gustare nella bianca verticalità delle scogliere di Polignano, e così ho la tentazione di addormentarmi e tornare alla Puglia prima o dopo quel momento: la ricorsività nel labirinto di ogni sfruttamento, gli africani piegati sui pomodori nelle favelas del Gargano e ancora le giovani prostitute sui viali di Lecce, dove hanno avuto il fegato di spingersi dopo qualche anno di confino nel centro storico – ricordo i vicoli di pietra delle Giravolte, le casette a un piano con le portefinestre a fare da vetrine e in una di queste, distesa e annoiata su un divano di stoffa celeste a guardare la tv, una sudamericana obesa, casco biondo anche lei, e qui la visione rischia di incarnarsi in fatale retorica: l’intera Puglia come una ragazza a cui fin troppe volte è stato suggerito di non sottovalutarsi e che alla fine ha preso a crederci davvero anche lei, a darsi arie, a lasciarsi guardare e guardare fino a disfarsi nelle pose di un’eccentrica baldracca sempre in vetrina.
Che non sa più vivere senza vetrina.
Allora chiudo gli occhi per non vedere, per non dormire.

Marco Montanaro - Mappe

© Daniele Argentiero

Resta la retorica. Nelle cucine di mezza Puglia si ascolta la dialettica ossidata del Presidente, adesso sempre più aggrovigliata nel rovesciamento del sacrificio, aggrappata come i tentacoli di un enorme octopode attorno a questo scoglio millenario a forma di tacco o ulivo disseccato; restano i volti dei mezzi busti del TGR, il rotacismo di Costantino Foschini mentre annuncia il programma del prossimo Festivàl della Valle d’Itriah, il comico riporto-residuato bellico degli anni ’80 di Franco Strippoli per cui la pagina dello sport è solo il Bari prima de La Bari, le acconciature da peepshow o sexy car wash delle giornaliste sue colleghe; le sopracciglia tracciate con la matita, sotto la parrucca, della proprietaria di un bed and breakfast sul lungomare di Castellaneta Marina: il luogo ideale per un delitto da consumarsi in inverno, mentre la glabra signora continua a far riferimento al ritorno di un marito inesistente almeno quanto la mamma di Norman Bates in Psycho; una barchetta arancione, col nome di Caronte scritto in blu sulla piccola prua, abbandonata nell’acqua scura del molo di Porto Cesareo; il corpo morto, sepolto chissà dove, di un tunisino investito da un’auto su quella strada – eccola – dritta come una fucilata tra Manduria e Oria; il Presidente che visita la tendopoli, in quei giorni, e senza abbarbicarsi troppo su una retorica che stavolta sarebbe troppo fragile, annuncia che non ne sapeva niente, che dal Ministero dell’Interno non è arrivata neppure mezza telefonata; una biscia nerissima e senza testa, immobile e tranquilla su una roccia in quel vasto deserto da cui fuggono i presunti tunisini per raggiungere a piedi San Pietro in Bevagna e lì cascare in ginocchio – come il disperato Charlton Heston davanti a quel che resta della Statua della Libertà nel finale del Pianeta delle scimmie – quando si trovano di fronte lo stesso mare che speravano di essersi lasciati alle spalle più a sud, a Lampedusa.

Tiro il fiato. La nuotata è stata lunga. Sono vecchio nuovamente. Quando sono così ingolfato e traboccante di visioni non posso che scegliere il silenzio. Infilarmi in auto. Non ascoltare nessuna canzone, sorridere di tutte le volte che ho pensato che questa fosse la stessa terra di Bruce Springsteen o Breece D’J Pancake (sospettando che bastasse questa corrispondenza a giustificare l’orrore della famiglia di Avetrana o della scuola di Brindisi) e scegliere invece la destinazione: una delle tante piazze gentrificate e svuotate – più che vuote – in cui sopravvive, dell’ora passata, solo una torre dell’orologio col tipico marchio TREBINO; uno dei tanti iperluoghi (altro che non!) edificati nel deserto di un immaginario diffuso ma forse non condiviso abbastanza – un centro commerciale atterrato su una vasta distesa di ulivi, un qualsiasi casermone o ex tabaccheria rimessa a nuovo per fare da sala concerti o centro di recupero per vecchi mestieri, evaporati ormai anche loro –; le ripide scogliere grigio-cristallino di Novaglie su cui si inerpicano serpentelli d’asfalto chiarissimo; una delle tante città dell’hinterland tarantino, partorite dall’Ilva stessa, attorno alle quali appaiono di notte gli ectoplasmi rossi dei fanali di robuste pale eoliche; il lungomare senza mare di Locorotondo, all’alba, o la campagna disabitata della Valle d’Itria col buio, nel punto in cui si scorge soltanto l’insegna gialla della Tana del Diavolo; o infine la mia Itaca, nella parte lucana della regione, per gettarmi in gravina a osservare il volo lento e affabulatorio di un nobile capovaccaio color del rame.

© Daniele Argentiero

© Daniele Argentiero

Ma ecco di nuovo l’accumulo di visioni, il pensiero che come rigurgito sale e scende pazzo per questa città-regione che, comunque la si voglia mettere, muore a vicolo cieco sul mare.
Allora non faccio niente.
Resto fermo in auto. Fischietto il coro da stadio improbabile (improbabile perché senziente, razionale) di un altro istrione nostrano, quell’invito di Caparezza a ballare, come nell’ultima notte del Titanic, in una danza apotropaica per una terra in cui ti fermi, e che abiti, come per tutte le altre: per appiattimento o abrasione.

Resto fermo qui, a ubriacarmi di pensieri come tutti, avanguardisti meridionali che come ogni avanguardia che si rispetti tirano il freno a mano a metà percorso, spengono la molotov del cambiamento per preferirgli qualche bottiglia di Primitivo o Negroamaro delle Tenute Carrisi e da lì si godono, infine, la prevedibile restaurazione.
Resto fermo e fermo pure la tentazione della retorica della resilienza: è questa grana spenta da Super8, in fondo, che abbiamo visto trasformarsi in pellicola digitale e luccicante negli ultimi quindici anni – una retorica di cui pure non sapremmo fare a meno: perché la pizzica non era musica da vecchi, ma il nostro blues.
Del resto, mi dico, non c’è nessuna verità da postulare o ristabilire: e questo è quello che succede quando alla fine esisti davvero; lo affermo da revenant ormai stanziale, mentre sono il Sancho Panza dei nomadi e corregionali Chisciotte che altrove, lontano da qui, si nutrono di esistenze similari alla mia per farne immaginario, e retorica (ancora), e speranza (ulteriore), e irrealizzabile desiderio di ritorno.
Appiattimento o abrasione, mi ripeto allora in petto per discolpa, e negli occhi mi si accende l’ultima visione: sono a Otranto, alle mie spalle c’è la cattedrale dei martiri, tra le nebbie del porto e del lungomare a forma di boomerang un vecchio uomo con la lunga barba bianca attende che la goletta, pirata o meno, riporti indietro qualcuno o qualcosa a cui raccontare tutta questa storia.


#Mappe – A Genova di bello c’è la sopraelevata

#Mappe – Rimini sotto il segno di Saturno

#Mappe – Il doppio slancio di Torino