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Le cose sono due: Francesco Targhetta

*Per gentile concessione degli autori, riproponiamo di seguito il testo della Postfazione all’ultima raccolta poetica di Francesco Targhetta, Le cose sono due (Valigie rosse, 2014).

Francesco Targhetta, classe 1980, esordisce nel 2009, ed esordisce bene. La sua prima raccolta, edita da Excogita e prefata da Raoul Bruni, si intitola Fiaschi, come quelli che si possono assiepare vuoti, sera dopo sera, se la sete si accompagna al desiderio pungente di comunanza e insieme a un profondo sentimento di estraneità rispetto al proprio tempo e ai propri luoghi. Oppure come gli altri – di fiaschi –, amici dei primi: il plurale reiterato di fare fiasco nella vita. Il quadro sconsolante composto da queste poesie è però tutto acceso dalla sottile euforia di chi scopre di saper nominare appropriatamente un sentimento calandolo nella realtà che lo suscita e che poi lo riverbera. Giustamente, nella prefazione Bruni ricorda l’impegno interpretativo che Targhetta ha dedicato a Govoni e in genere alla poesia crepuscolare. Govoniano è il felice collezionismo di fenomeni e di situazioni quotidiane, magari rinfrescato con la lezione di Pagliarani o di Giudici (due poeti a cui fu assegnata, per una zona circoscritta della loro opera, l’etichetta di neo-crepuscolari). Già all’altezza di Fiaschi, inoltre, era ben visibile il doppio binario su cui corre l’ispirazione di Targhetta: uno di tradizione letteraria, come si è visto e che significa anche coscienza tecnica, ritmica e fonica, dello specifico poetico, e un altro pop (su cui tornerò).

La stessa miscela, così ben amalgamata da non necessitare compensazioni iper-letterarie o derive beat, si ritrova nel libro successivo, e per ora ultimo, pubblicato nel 2012: Perciò veniamo bene nelle fotografie (Isbn). Libro applauditissimo che sperimenta un genere assai poco praticato: il romanzo in versi. Ma Targhetta – se non sbaglio – non fonda la sua operazione sui pochi esempi reperibili nel nostro Novecento (La ragazza Carla e La Ballata di Rudi di Pagliarani, La capitale del Nord di Majorino, La camera da letto di Bertolucci), quanto piuttosto sul doppio binario appena indicato, componendo con libero estro una musica tra il cantabile e l’elettrico ricchissima di effetti smorzati e di disarmonie che non è lontana dall’affabulazione calda e vitale di certa narrativa americana del secondo Novecento. Di primo acchito, tuttavia, l’impressione maggiore che si ricava leggendo Perciò veniamo bene nelle fotografie è di specie sociologica: Targhetta dimostra una sorprendente capacità di captare e restituire la cifra linguistica di un gruppo determinato di nostri connazionali, quello dei trentenni tardivamente giunti a una linea d’ombra. La linea che, attraversata, dovrebbe segnare il passaggio dalla giovinezza alla maturità. Ma attraversarla, si sa, non pare lecito, e loro si trovano a masticare amaro in una terra di nessuno: ormai inabitabile la trincea delle grandi speranze, delle prospettive scontornate, e già tutta presidiata quella della concretezza di un lavoro in cui adempiersi. Un limbo, uno stato di precarietà, un orizzonte depressivo: scegliete voi il luogo comune che più vi persuade. In ogni modo, si tratta di fiaschi, e come già nel libro che così s’intitola, Targhetta non si è accontentato di denunciare una situazione autobiografica, che, al pari della Vita agra di Bianciardi, ha originato prima una «solenne incazzatura» e poi un romanzo in versi.

Come molti dei migliori poeti suoi coetanei, Targhetta accompagna alla denuncia la rappresentazione, o meglio denuncia rappresentando, e lo fa con una fedeltà al reale e una salutare ingordigia di particolari che raramente – e la cosa può risultare curiosa – avviene nella nostra narrativa attuale. Non è un caso forse che, sotto questo aspetto, una simile felicità di ascolto si trovi in un libro anomalo come Personaggi precari di Santoni, dove in una sorta di Spoon River di malvivi si assiepa una moltitudine di voci che non si intrecciano, e il caos del presente è tradotto in un coacervo babelizzato di voci dissonanti. In Perciò veniamo bene nelle fotografie ci imbattiamo in parole d’ordine, modi di dire codificati e databili, interiezioni e imprecazioni; ma soprattutto nella sintassi mentale che presiede alla determinazione di un condiviso immaginario contemporaneo. Una sintassi che si articola tra cartoni animati o fumetti, moltissima musica leggera quasi soltanto rock e straniera, marche e sottomarche di prodotti consumati per necessità attuale o nostalgicamente evocati dall’infanzia, input forzosamente traditi eppure inaggirabili della generazione dei padri. Se uno storico del futuro vorrà un giorno capire cosa facevano e pensavano i trentenni degli anni dieci con ambizioni umanistiche, leggerà con grande profitto quest’opera, e sentirà allo stesso tempo l’esigenza di seguire i tanti fili rossi che conducono ad altri ambiti: l’economia e la pedagogia, il marketing e la storia delle istituzioni, il cinema e l’urbanistica.

Lo stesso storico avrà interesse a leggere Le cose sono due, anche a prescindere dal titolo che, di per sé, a me pare, strepitoso. In questa nostra plaquette Targhetta è ancora intento a indagare la realtà che lo circonda, braccandola nelle sue evenienze in apparenza più innocue e che si rivelano invece gonfie di implicazioni liriche. Ma ha sostituito le ampie campate e la fotografia di gruppo con nitidi ingrandimenti di singole occasioni. Le sedici poesie che compongono la prima sezione sono prive di titolo, sostituito da un numero progressivo, ma nella nota finale si elencano i vari protagonisti (uno per poesia: non è difficile collegare il personaggio al testo cui si riferisce). Nella seconda invece i titoli sono espliciti ed eloquenti di un trapasso verso figure di disfacimento illuminate da una luce disperatamente e soltanto in ultima analisi pietosa (l’ultimo testo si intitola Carità); i cui riflessi si rifrangono anche sui personaggi della prima sezione, quasi a mostrare la china futura, spaventosa, della loro esistenza. Ma tanto nella prima quanto nella seconda sezione, l’obiettivazione dei personaggi è sempre accompagnata dalla presenza dell’io. A volte addirittura l’ingresso del diverso da sé avviene all’interno di una similitudine (per esempio nella poesia 2), sicché si potrebbe azzardare che il poeta ci offra, più che vere personae, una serie di travestimenti di se stesso; più cautamente, è lecito parlare di una rassegna di incontri, via via trattati con maggiore o minore distacco.

Certo, rispetto al libro precedente, qui è aumentata la distanza tra l’occhio che guarda e il soggetto osservato, si tratti pure di un’auto-osservazione. Non si pensi a un indice di raffreddamento; semmai, a una pensosità più marcata, a uno scavo interiore che riflette sull’isolamento di ciascuno e riporta lo sbando epocale – ancora ben presente – a ragioni generali, connaturate alla condizione umana. Non c’è in tutta la raccolta un solo gesto di vicinanza, di cordialità, di comprensione. E d’altra parte, solo accennato ma alla base filosofica della plaquette, opera una forma di massimalismo morale frustrato, che ne costituisce l’elemento più commovente. Qualcosa da fare non è stato fatto, la posta era decisiva e si è puntato male: «i giorni in cui non parli con nessuno – inizia la poesia che contiene il titolo del libro – le cose sono due: / o arrivi a cogliere il senso di tutto / o confondi corrompi ti ingarbugli». Che è una dichiarazione di sconfitta, poiché il senso di tutto non si coglie mai, nemmeno di quel tutto rappresentato dal nostro passato individuale; e avvedersene produce un sentimentalismo fallace: «la tua voce che chiama il gatto / è quella, alla sera, di un crooner / […] / l’eco rauca e lunga / nella notte che ti riprende in scacco». L’ironia affilata, che è uno dei modi con cui si può scongiurare il rischio dell’egotica lamentazione lirica, è la faccia opposta e speculare della capacità di analisi dispiegata nell’indagine di sé negli altri. Ogni stratagemma linguistico serve allora allo scopo: «allarmarsi non serve» è l’ultimo verso di una poesia che potrebbe essere anche la riflessione sull’avara grettezza di certa borghesia del nord est, ma il cui messaggio primo si smargina in una considerazione di maggiore respiro: è inutile allarmarsi non perché non esista pericolo, anzi: il pericolo che ci sovrasta non ci permette di concepire difese.

Siamo ancora a due distinti movimenti (le cose sono due), a un doppio binario, al doppiofondo di un contenitore dove sono stipati la realtà e la sua percezione soggettiva, rielaborata in accezione lirico-meditativa. Il che è accertabile anche nella costruzione dei testi, che alternano un momento metaforico e uno più spiccatamente narrativo, naturalmente intersecati e vicendevolmente alimentati. E mentre il guizzo metaforico, l’inciso emozionale, il paragone improvviso spesso sigillano e caricano di senso la narratività, interrompendone la durata, d’altronde è proprio la durata narrativa a echeggiare anche nelle clausole più risolte in senso lirico, che per questo acquistano una risonanza ulteriore, che allude a una prosecuzione dell’esistenza descritta, a altre virtualità oltre quelle evocate. Lasciando da parte la bella prosa delle Quattro vedove, la prospettiva che ho cercato di suggerire ha un corrispondente preciso nell’elaborazione formale dei testi, che dietro la loro cordiale leggibilità e quasi giocosa sprezzatura rivelano una sapiente strutturazione retorica. L’allitterazione è il fenomeno più appariscente fin dalla prima poesia: si veda quantomeno, qui, l’insistenza su poche consonanti a inizio e in mezzo alle parole. Ma spie ancora più eloquenti sono le inversioni di aggettivo e sostantivo, o sostantivo e verbo, di carattere nobilitante in un contesto colloquiale, a cavare scintille dal proverbiale cozzo tra aulico e prosastico (secondo la famosa formula critica escogitata da Montale per la poesia di Gozzano); e poi la sapienza nella dislocazione delle rime: da quelle sigillanti che chiudono i componimenti, a quelle interne, quasi occultate eppure capaci di dinamizzare la consistenza fonica del testo, senza dimenticare le rime imperfette, le assonanze e le consonanze che rimarcano l’abbraccio mancato tra personaggi paesaggi oggetti e un loro qualche significato propulsivo. Ma tutto questo armamentario tecnico sarebbe soltanto un armamentario se non fosse al servizio di una sensibilità poetica di prim’ordine. Sicché di fronte a versi come questi:

finché è sera dentro le stanze
e niente, attorno, si è mosso,
come (ricordi?) belle statuine,
marce, però:
hanno i volti smangiati,
gli occhi venati di rosso

ben prima di ammirare il gioco allitterante fondato sulla ricorrenza della consonante s, o di sottolineare la vivace varietà metrica dei versi (ottonario e novenario, ma accentati in maniera anti-tradizionale, endecasillabo, quinario e settenario), ci lasciamo affascinare dall’efficacia dell’immagine suscitata, dall’attualizzazione lugubre della giocosità dell’infanzia che sembra rileggere l’innocenza perduta e quella che ancora ci concediamo con severa misericordia. Perché in poesia – ci dice Targhetta – allarmarsi serve ancora a qualcosa.