Cosa succede se cinque giovani africani, richiedenti asilo, si trovano a condividere un appartamento a Malegno, un paesino della Val Camonica, che conta 2000 abitanti?
Si potrebbe pensare di essere di fronte a una di quelle situazioni potenzialmente esplosive che ogni giorno rimbalzano sui media e contribuiscono a creare un clima di disagio e di frustrazione nei cittadini, con derive nazionaliste preoccupanti. E invece non è così. Non a Malegno.

Gli autori de La valle accogliente (Emi, 2015) ci raccontano l’esperienza vincente realizzata nel piccolo comune, vissuta in prima persona, dipingendone i tratti essenziali e al contempo unici, fondamentali nel definire le strategie sociali e pedagogiche messe in atto.
Corre l’anno 2011 e, nel pieno della cosiddetta Emergenza Nord Africa, fa scandalo a livello nazionale il caso di 116 profughi-richiedenti asilo ospitati presso il residence “Le baite” di Montecampione. La struttura non è idonea ad accoglierli e tutelarli per diversi motivi: si trova ad alta quota e in una posizione isolata (a 13 km dal paese più vicino); non è in grado di erogare servizi di accoglienza integrata, limitandosi a quelli di prima necessità: vitto, alloggio, lavanderia, disposizione di un kit per l’igiene personale e di una somma giornaliera pari a 2,50 euro.

Gli enti locali del territorio però intuiscono cosa non funziona nella realtà dell’accoglienza privata-alberghiera e corrono ai ripari: il Comune di Malegno, in collaborazione con la cooperativa K-pax, partner SPRAR,[1] avvia un progetto pilota di microaccoglienza diffusa, che diventerà ben presto un modello da seguire per altri comuni della zona. La microaccoglienza consta nell’inserire poche persone in piccole strutture ed è individuata come «unico modello sostenibile e da promuovere per tutte le municipalità» perché «riduce l’impatto sociale e le problematiche igienico-sanitarie, di sicurezza e di ordine pubblico connesse al fenomeno, oltre a favorire qualità e dignità della persona accolta, obiettivi altrimenti non praticabili e perseguibili, soprattutto se in ambienti come tendopoli o caserme o per grandi concentrazioni» (p. 49).

L’idea sottesa al progetto è che per promuovere integrazione tra abitanti e profughi sia necessario coinvolgere attivamente entrambe le parti per creare occasioni di conoscenza e gettare così le basi per la costruzione di relazioni di fiducia e collaborazione, contribuendo al percorso di autonomia di cui i richiedenti asilo sono protagonisti. Come? In apparenza la soluzione è semplice, ma risulta profondamente innovativa: vengono messi a disposizione dei richiedenti asilo alloggi dignitosi nel centro abitato e, contemporaneamente, predisposti servizi di accoglienza integrata che comprendono percorsi di alfabetizzazione, l’assistenza legale e la possibilità di svolgere un tirocinio formativo con l’aiuto di volontari della zona. La possibilità di impiegare il proprio tempo in modo fruttuoso e in attività che abbiano effetti manifesti sul territorio facilita l’inserimento progressivo dei giovani africani nella comunità di arrivo.

Questa logica progettuale partecipata, che si propone di mettere in rete le risorse già presenti nel territorio a diversi livelli considerando tutte le variabili in gioco come parte del problema-soluzione, si pone obiettivi a lungo termine nonostante operi in situazioni di emergenza, mantenendo al contempo una certa flessibilità di pensiero; nel caso specifico, ad esempio, il tirocinio di formazione lavorativa nel mantenimento del verde pubblico – avvenuto a stretto contatto con i cittadini – si è evoluto in un’attività di coltivazione delle patate che ha permesso ai giovani di divenire autonomi dal punto di vista economico e ha riqualificato alcuni campi dismessi ai confini della città.

Il caso di Malegno, descritto nella sua evoluzione, costituisce un esempio di buone pratiche educative e di come un sistema, che coinvolga da una parte le amministrazioni e dall’altra una buona rete di volontariato, coordinati da una cooperativa con una seria progettualità, possa divenire virtuoso e creare le condizioni adatte per un’accoglienza che porti benefici alla comunità intera e alle persone cui l’accoglienza è rivolta, senza costi aggiuntivi per gli enti locali; la cooperativa ha, infatti, ottenuto fondi europei.

Per tali motivi questa esperienza è di particolare interesse se letta in chiave pedagogica; non si può non notare l’attenzione alla complessità delle azioni sottese al pensare, realizzare e verificare il progetto in essere, alle diverse fasi della progettazione educativa.[2] Diversi fattori contribuiscono a definire l’esito positivo dell’esperienza: il coinvolgimento calibrato della comunità territoriale e la dimensione locale della proposta, l’umiltà di mettersi in gioco e di ridefinire il progetto durante il suo sviluppo, permettendo anche ai soggetti utenti di esserne protagonisti attivi e tracciare nuove direzioni da percorrere. Non sono proposte soluzioni a priori, ci si muove nella direzione di quello che altrove è definito lavoro di “cura autentica”,[3] che permette al soggetto di esprimere le proprie potenzialità, il proprio essere all’interno di un setting da co-costruire. In fondo è questo l’obiettivo ultimo e primo dell’educazione e il motivo della fatica costitutiva del lavoro di promozione sociale, dovuta alla circolarità del pensare e ricontrattare volta per volta, situazione per situazione, passaggio dopo passaggio. Il progetto diviene un ponte tra il mondo della vita e il mondo dell’educazione delle persone, in modo che entrambe le dimensioni siano abitate con maggior consapevolezza e acquisiscano maggior valore dallo scambio reciproco.

La dimensione “micro” rappresenta certamente un vantaggio, perché permette di concentrarsi su una piccola realtà e su un gruppo ristretto di persone, ma allo stesso tempo rischia di non avere grande risalto a livello nazionale.
Gli autori del testo ci raccontano una storia di integrazione, un esempio da conoscere ed esportare per provare ad assumere un diverso punto di vista sull’emergenza profughi, il punto di vista di chi può imparare a riconoscere nel profugo il volto di un vicino di casa, un manutentore del verde pubblico, un coltivatore. Certo, non possiamo pensare che sia un percorso a senso unico, né tantomeno rapido. L’educazione, si sa, richiede tempi lunghi e la disponibilità a pro-gettarsi verso il futuro. Non si tratta dell’impegno di una singola persona – per quanto mossa da buone intenzioni – o della costruzione di una relazione educativa solida, ma di istituire dei veri e propri laboratori a cielo aperto nei quali sperimentare e poter riflettere sulle esperienze realizzate e sui loro effetti, tanto per chi agisce le pratiche educative, quanto per chi, quale che sia il motivo, ne è il soggetto.


 

La valle accoglientePaolo Erba, Eugenia Pennacchio, Silvia Turelli, La valle accogliente, Emi, 2015, 60 pp., € 7.

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati. È diffuso su tutto il territorio nazionale e si basa sul coinvolgimento delle istituzioni centrali e locali nel realizzare progetti di accoglienza diffusa in piccoli gruppi, con percorsi individualizzati e il raggiungimento di determinati standard nei servizi offerti.

[2] Per approfondire i modelli e le fasi della progettazione pedagogica si veda L. Leone, M. Prezza, Costruire e valutare progetti nel sociale, Franco Angeli 2005.

[3] C. Palmieri, La cura educativa. Riflessioni ed esperienze tra le pieghe dell’educare, Franco Angeli, 2003.