Nella bulimica offerta di serie televisive degli ultimi anni è facile perdere l’orientamento e trascurare prodotti di qualità a vantaggio di quello che internet, tv e passaparola decretano come il must-see della stagione. Per un prodotto seriale che viene consacrato al successo da critici, influencer, blogger e cugini vari, ce ne sono decine che faticano a ricevere la meritata attenzione, spesso solo per il fatto di non aver goduto della stessa spinta mediatica dei concorrenti. È altrettanto vero che nell’era della critica insonne e virale dei social network le sorti di una serie che non rispetta le severe attese di milioni di spettatori possono cambiare repentinamente. Ne sanno qualcosa alla HBO, che dopo notevoli campagne marketing per promuovere la serie Vinyl (prodotta da leggende come Scorsese e Mick Jagger) ha visto l’interesse attorno a questo show calare episodio dopo episodio, inducendoli a licenziare il noto showrunner alla guida, Terence Winter. Per non parlare di True detective, che dopo il passo falso della seconda stagione, probabilmente non sarà confermato per una terza. A lato ci sono le serie che sgomitano per avere la meritata visibilità, con agguerriti gruppi di sostenitori che intraprendono crociate mediatiche per i loro beniamini. In alcuni casi non sono solo fan o gente della strada a sentirsi investiti di un simile incarico, ma anche giornalisti ed esperti del settore. Il caso più eclatante è di certo quello della serie The Americans. Todd VanDer Werff, giornalista della celebre rivista Vox, la considera il miglior show in tv . Senza mezzi termini, ritiene questo show di gran lunga migliore dei pluripremiati Downtow Abbey o House of cards. Anche dal New Yorker e da Vulture si levano voci autorevoli in difesa di The Americans, confermando la sensazione che il grande pubblico si stia perdendo qualcosa di grosso. E chi ha visto le tre stagioni (più la quarta quasi al termine) non fa che confermare quanto sentito.
The Americans è una serie tv trasmessa da FX e prodotta da Graham Yost. Protagonisti sono Elizabeth e Philip Jennings (Keri Russel e Matthew Rhys), apparentemente una normale coppia sposata con figli nella Washington dei primi anni 80. Dietro a questo quadretto americano si celano in realtà due spie sovietiche che conducono da anni operazioni ad altro rischio in territorio nemico.
Creatore e showrunner della serie è Joe Weisberg, ex-agente della CIA e per questo abile nel rendere credibili le modalità operative dei due agenti. La scrittura è di altissimo livello, priva di facili luoghi comuni tipici delle spy story e sorprendentemente convincente. Ad ogni scena il registro può virare dal dramma più intimo al thriller, senza risentire di strappi nella sceneggiatura.
Si assiste col fiato sospeso agli equilibrismi sostenuti quotidianamente dai due protagonisti per tenere insieme famiglia, relazioni fittizie, doppie vite, missioni pericolose e non ultima la propria salute mentale. Nulla è lasciato al caso, ogni dettaglio contribuisce alla rappresentazione di un insostenibile gioco di forze perennemente in tensione. La guerra fredda passa anche per attese insopportabili, incontri che non hanno luogo e soprattutto la difficoltà nello scegliere cosa sia giusto o sbagliato. Elizabeth e Philip affrontano le situazioni in modo molto diverso. Lei è votata totalmente alla causa e non si sforza di comprendere la cultura in cui vive, Philip sembra non essere del tutto insensibile al fascino dell’America e questo condiziona inevitabilmente il suo modo di agire. Con il procedere degli episodi assistiamo a un lento avvicinarsi e fondersi delle due posizioni, di pari passo con l’aumentare del loro grado di intimità. La realtà attorno a loro si scompone in molteplici piani onirici, tanti quante sono le vite parallele che tengono in piedi quotidianamente.
Come in una scacchiera alla Game of Thrones abbiamo opposte fazioni, roccaforti che muovono le loro pedine in una guerra combattuta nelle retrovie, dove la violenza esplode improvvisa per poi essere nuovamente inghiottita dal silenzio più assoluto. Abbiamo l’ufficio dell’FBI e l’ambasciata sovietica di Washington (la Rezidentura), la casa dei Jennings e quella del loro vicino di casa Stan Beeman, agente dell’FBI: spazi concomitanti, vicini e lontanissimi allo stesso tempo.Washington è un campo da gioco: quando perdi muori o prendi un volo di sola andata per la Russia, mentre il resto del mondo continua la sua vita come se nulla fosse.
In questa serie di spionaggio sui generis, la guerra fredda si fa metafora dei rapporti umani e del loro fondamento: la fiducia. In una vita basata sugli inganni, potersi fidare di qualcuno diventa l’unica forma di salvezza. Niente è al sicuro senza fiducia, ogni legame è in pericolo, persino quello tra genitori e figli o tra un uomo e la sua patria.
In un contesto scarno ed essenziale, gli attori di questo drama compiono un capolavoro di interpretazione dosata alla perfezione, muovendosi sempre in contesti in continuo mutamento. I due protagonisti in particolare dimostrano una versatilità eccezionale nell’indossare molteplici maschere senza risultare mai flat, ma rendendo con pochi gesti nuovi e verosimili personaggi.
Alla prossima sessione di binge watching ricordatevi di questa serie e non ne rimarrete delusi.