Il terzo romanzo di Gilda Policastro, Cella (Marsilio 2015, 174 pp.) è un libro che sta raccogliendo grande consenso critico, e meritatamente. Cella sorprende sia per la sicurezza stilistica, lontanissimo com’è dai cliché linguistici di tanta narrativa italiana, più vicina al giornalismo che alla letteratura, senza tuttavia scivolare in uno sperimentalismo virtuosistico e fine a se stesso, sia per la capacità di delineare con precisione clinica i suoi personaggi e i rapporti che intercorrono tra loro.
Come tutti i romanzi che meritano questo nome, Cella non può ridursi alla sua sinossi, ma occorre cominciare da lì. In Sud Italia, una donna viene sedotta in giovane età da un uomo più anziano, un medico, un potente, dal quale ha una figlia. L’uomo si stanca progressivamente di lei, finché la loro separazione non è segnata definitivamente dalla sua latitanza per avere aiutato una brigatista. Il romanzo, allora, non sarebbe altro che il lungo monologo di questa donna abbandonata, in esilio volontario nella propria casa ormai diroccata, con la sola compagnia della figlia e del figliastro – e questo monologo si muove disordinatamente, ma non senza lucidità, tra presente e passato, ripercorrendo la vita della protagonista dall’infanzia alla sua condizione attuale. Nell’ultima pagina, tuttavia, prende la parola l’uomo, Giovanni, che confessa velatamente che tutto il lungo monologo non è che una sua invenzione, una sua fantasia scritta nella latitanza. E però, Giovanni prende la parola in una sezione intitolata “Per ipotesi” – per ipotesi lui ha finto la voce dell’ex compagna, o per ipotesi il romanzo si conclude così? Entrambe queste verità possibili convivono.
Cella è un libro sulla crudeltà del rapporto amoroso, sul rapporto amoroso come esercizio di potere:
«Non tutti gli uomini hanno potere, non tutti hanno lo stesso potere. Non è qualcosa che si possa comprendere o definire, che tipo di potere. Non ci sono mai riusciti, gli uomini, a farmelo capire. La prima forma è il possesso. Un uomo può avere il potere e in nome di questo potere, prendersi le cose che vuole, non solo quelle di cui ha bisogno. Anzi, meno ne ha bisogno, più le vuole. Il bisogno è una specie diversa del desiderio: se ho bisogno di qualcosa non la desidero, lavoro per averla. Il desiderio è il superfluo, la donna, molte. Il secondo tipo è l’umiliazione. Quando un uomo ti ha in suo potere, e lo sa, ti umilia col tenerti a distanza, col ribadire che può farne a meno. Può fare a meno tanto di te che di tenerti in suo potere. Nemmeno a quella soddisfazione puoi aggrapparti, dovrai essere sostituita. Il terzo è l’abbandono. L’abbandono è la forma più crudele dell’esercizio di un potere: nessuno sa quando avviene e perché, ma c’è un momento in cui le cose finiscono, e anche se può durare a lungo il tempo in cui se ne acquisisce consapevolezza, continuando, nel frattempo, a vivere sotto lo stesso tetto, a condividere le posate, i teli da bagno, le spazzole e qualche volta gli spazzolini (hai l’herpes, hai le carie, hai l’afta), arriva un giorno in cui ci si separa, e non lo si decide, come vuole la retorica delle separazioni, insieme, ma è sempre uno dei due per primo, ad andarsene» (p. 92).
Giovanni possiede la protagonista, la priva di autonomia, la costringe a fare quello che desidera. Ha fatto bene Gilda Policastro a evocare (p. 164), di sfuggita ma non per caso, Il maestro di go di Yasunari Kawabata. Se la partita a scacchi è la metafora consueta e stantia della seduzione, la partita a go è invece un parallelo perfetto alla vicenda di Cella, perché il go, a differenza degli scacchi, non è un gioco di annientamento, ma di soffocamento: di progressiva occupazione degli spazi vuoti della scacchiera sino a circondare e rimuovere le pedine altrui.
La chiusura degli spazi, la loro fissità, l’unilateralità del rapporto potrebbero fare pensare a Sade, ma Giovanni non è un sadico, così come non è un sadico il professore che gli subentra come amante della protagonista, e che la costringe a pratiche umilianti: manca infatti il furore razionalistico che sta alla base del discorso sadiano, e l’abuso è compiuto per semplice sovrabbondanza di potere e di eccitazione, per capriccio, come fa anche il dentista che molesta la protagonista quando questa, prima di conoscere Giovanni, lavora per lui.
Possessione, dunque: in presenza, ma anche in assenza. Non solo la protagonista, durante il suo rapporto con Giovanni, non ha mai libertà di parola, autonomia discorsiva, come dice lei stessa mimando il gergo psicanalitico, ma, una volta che la loro relazione è terminata, non sa parlare che di lui:
«Ma Giovanni non sarebbe mai morto, il suo pensiero, la sua faccia, mi avrebbero perseguitato fino alla mia, di morte, perché Giovanni se n’era andato, e chi lascia non solo decide la fine, quasi sempre unilateralmente, ma condanna chi viene lasciato a non potersi più riprendere, a vivere di quell’unico tarlo, quasi a coltivarselo, per non smettere di sperare» (p. 44).
Così il triangolo che si crea tra Giovanni, la protagonista e la figlia Elena non è equilatero, ma segnato dalla preminenza assoluta dell’uomo, che si traduce nell’estraneità tra le due donne – la madre non ama la figlia, la figlia si vergogna della madre. E allo stesso modo, una volta sparito Giovanni, la protagonista è ancora prigioniera da un rapporto mortuario, di riflesso, con il figliastro Dario, con il quale ha una relazione.
Infatti cella non è il luogo dove si trova la protagonista, ma il soprannome che le danno la figlia e il figliastro, perché lei stessa finisce per essere la propria prigione; ed è significativa, in questo senso, l’inclusione nel testo delle immagini di due opere di Louise Bourgeois, alle quali la qualità della stampa, purtroppo, non rende giustizia. Nel romanzo niente sembra muoversi, niente sembra accadere, e nessun personaggio nuovo entra in scena che non fosse già entrato in scena prima, come la brigatista. L’attenzione rimane focalizzata sempre sul passato, che non si scioglie mai: «Si pensa alle cose che ci fanno male con lo stesso gusto con cui si pensa ai piaceri» (p. 68).
E in tutto questo va ricordata l’ipotesi della pagina finale: la possibilità cioè che tutto il racconto non sia che la parodia della voce della protagonista, la sua brutta copia fatta da Giovanni. Suggerire proprio in chiusura, in maniera completamente inaspettata e comunque solo attraverso mezze parole («immaginare», «fare questo esercizio»), la possibilità che la voce narrante non appartenesse alla protagonista è a mio avviso un modo brillante per concludere e portare a un livello ulteriore il discorso, che già era disseminato per il romanzo, intorno all’inattendibilità di ogni narratore, e l’inestricabilità dell’oggetto letterario. Una trovata simile mette in difficoltà il lettore (anche quello attento, professionale: mi sono ritrovato a leggere la pagina tre o quattro volte prima di capire effettivamente che cosa intendesse), ma non è un banale espediente teatrale, una posa, bensì una forma di rispetto verso chi legge, dal momento che lo presume competente, partecipe, in grado di sciogliere o perlomeno di affrontare gli equivoci che il testo gli presenta.
La sola cosa che sembra davvero un po’ fuori luogo nel romanzo è la comparsa della brigatista – la donna per la quale Giovanni aveva dovuto cominciare la sua latitanza, e che con la sua ricomparsa mette in definitiva crisi i rapporti tra la protagonista e la figlia. Questo personaggio (che prende la parola tramite le pagine di un diario), con la sua forza attiva, che rifiuta la sottomissione, compare per fare da contraltare alla consunzione e alla voluttà di abbruttimento della protagonista:
«S’impone un ripensamento dei termini entro cui il proletariato ha definito la propria presenza e le proprie funzioni all’interno dello stato capitalista e borghese. Se hai un paio di scarpe, c’è qualcuno che te le ha fatte, qualcuno che ha delle scarpe peggiori delle tue. È questo che combattiamo, è questo tipo di sperequazione che guarda la nostra lotta. Non ci sono nemici assoluti, la relazione col mondo reale e materiale, con le cose, ci preoccupa più dell’ideale. Noi non siamo tutti, noi siamo diversi, diversi da chi combatte per il solo scambio, per il patteggiamento della dignità col potere. Noi andiamo in un’altra direzione. La lotta è per gli uguali, per un mondo di pari opportunità, in cui il debole, il sottomesso, lo schiavo, il servo, possa sentire tutto lo schifo e la vergogna della propria condizione, e provare il bisogno e la necessità del riscatto» (p. 118).
Una figura così peculiare, così difforme, viene tuttavia presentata forse troppo in fretta, e non esaurisce tutto quello che potrebbe dire. Entra e esce con troppa rapidità, senza amalgamarsi bene con il resto del libro – e infatti, come si legge nella bella conversazione della Policastro con Giulio Mozzi, il personaggio è nato in un altro contesto: «La parte che contiene il diario della terrorista è la prima che ho scritto, diversi anni fa, ancor prima del Farmaco. Mi era stato commissionato un racconto che avesse un’ambientazione storica o che si riferisse a un fatto preciso, a una data, addirittura, e allora mi tornò in mente questo episodio d’infanzia legato alla clinica del paese in cui abitavo e al medico che aveva curato la terrorista». L’impressione è che si abbia a che fare con un tentativo di unire destini individuali e collettivi che però rimane abbastanza abbozzato.
In conclusione, credo che con Cella Gilda Policastro possa diventare, e già in parte lo è, un punto di riferimento per una nuova generazione di scrittori. Non per forza, o non solo, un modello di prosa – compito che comunque, come già ho avuto modo di dire, assolverebbe benissimo. Quello che trovo davvero prezioso, nel lavoro della Policastro, che rifiuta ogni incasellamento di mercato scrivendo un romanzo ambientato al Sud che non racconta il territorio, raccontando una protagonista femminile senza scrivere narrativa al femminile, è il fare letteratura con piena fiducia nelle sue capacità conoscitive, senza fare sconti alla leggibilità scivolando nella sceneggiatura, e presumendo un lettore competente e attento.