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Nicolas Winding Refn e il cinema dell’inumano

Nicolas Winding Refn è certamente uno dei registi più cool del momento, conosciuto e apprezzato sia dagli intenditori che dal pubblico semi-generalista. Il suo è cinema d’autore (ma non del tutto) ed è anche cinema di genere (ma non del tutto); una bizzarra fusione di due anime, quella del regista dotato di un proprio stile inconfondibile e quella del cinefilo ultra-citazionista. A partire da Valhalla Rising (quindi prima che da Drive, il film che gli ha finalmente donato un pubblico che non fosse di nicchia), Refn ha adottato uno stile che sempre più aspira alla sottrazione e all’astrazione, come se per giungere all’essenza delle cose fosse prima necessario spogliarle del superfluo (spesso identificato nella parola: negli ultimi suoi lavori il dialogo si è fatto sempre più scarno, talvolta al limite del parossismo, come nel caso del penultimo lavoro Solo Dio perdona). Questo stile si è fatto talmente marcato che è oramai considerato il vero marchio di fabbrica del regista danese, e ovviamente anche The Neon Demon ne è profondamente impregnato, pur senza raggiungere gli estremi del suo film precedente. Oltre allo stile ricercatissimo, simile a quello di Terrence Malick o Paolo Sorrentino, la caratteristica fondante dei suoi ultimi film è quella di creare mondi in cui i personaggi sentono, pensano e agiscono secondo regole diverse rispetto a quelle dei comuni mortali. Quello di Refn si è trasformato in un cinema dell’inumano.

Eppure Refn non è sempre stato così. La prima parte della sua filmografia è caratterizzata infatti da uno stile che a prima vista potrebbe sembrare più ingenuo e immaturo, ma che invece era semplicemente diverso: forse grezzo, volutamente grezzo, ma anche più vitale, e soprattutto più umano. Prendiamo ad esempio il personaggio di Mads Mikkelsen in Bleeder, la sua opera seconda: in quel film Mikkelsen interpretava Lenny, un commesso di cineteca timido e umile, teneramente innamorato di una cameriera ma incapace di mostrarle i suoi veri sentimenti. Il personaggio era rappresentato con candore e semplicità, e lo spettatore era naturalmente portato a parteggiare per lui. Osserviamo ora per contrasto un personaggio minore di The Neon Demon, il giovane fotografo innamorato della protagonista Jesse, la modella sedicenne interpretata da Elle Fanning. Dean, questo il nome del giovane, incarna chiaramente il ruolo del ragazzo per bene dai sentimenti genuini, destinato a essere escluso dal mondo sintetico e spietato a cui invece Jesse aspira. La differenza con Lenny di Bleeder sta nel fatto che Lenny viveva in un mondo normale e pulsante di vita, in cui all’animo umano viene normale parteggiare per il più debole. In The Neon Demon, invece, lo spettatore è immerso in un mondo irreale e Dean non è rappresentato per quello che è, ma per quello che appare: il debole, l’illuso, il peso morto. Il ramo secco da tagliare.

Già, nell’ultimo film di Refn l’unica cosa che conta è la forza, in tutte le sue declinazioni: la brutalità (il volgare e violento Keanu Reeves, proprietario del motel da quattro soldi in cui Jesse affitta una stanza); il potere (la manager dei casting, il fotografo, lo stilista); e la bellezza, ovviamente. Quella bellezza, così virginale, diafana ed eterea che la giovanissima Jessie impara ad usare molto presto per schiacciare i suoi oppositori e ottenere i propri scopi. In una sequenza misteriosa intravediamo nell’oscurità della camera di Jessie una figura minacciosa: è un puma, animale selvaggio e regale, trasfigurazione bestiale della volontà della ragazzina che sta gradualmente perdendo la propria umanità. Non esistono rapporti umani, l’unica regola che vige è quella del cane mangia cane.

Non che violenza e brutalità non appartengano da sempre al cinema di Refn, come dimostrano le efferatezze varie che la trilogia di Pusher o lo stesso Bleeder possono vantare. La differenza sta nel fatto che nel suo primo cinema gli atti di violenza erano compiuti da esseri umani veri e propri, dotati di sentimenti, rimorsi, contraddizioni. Prendiamo Pusher II: Mads Mikkelsen – sempre lui, l’attore feticcio di Refn – interpreta Tonny, criminale da quattro soldi, mezzo ritardato e impotente. Per tutto il film subisce un’umiliazione dopo l’altra, dalle prostitute che ridono di lui, dall’ex fidanzata che preferisce sniffare coca piuttosto che prendersi cura del figlio, e soprattutto dal padre, incapace di provare affetto o fiducia nei suoi confronti. Tonny è un personaggio complesso, profondamente umano – appunto – capace di compiere un percorso di crescita che lo porterà alla fine a un’inaspettata quanto titanica rivolta contro tutto e tutti. Un altro esempio è quello di Pusher III, in cui torna Milo, il boss della droga che del primo film costituiva l’antagonista, il “cattivo”, mentre qui appare nelle vesti di protagonista, quindi del “buono”. Ma nella vita reale non esistono buoni e cattivi, ma solo sfumature: semplicemente, Refn sceglie di mostrarci nel capitolo conclusivo della sua trilogia un lato di Milo che in Pusher I ci era rimasto celato. Come in Pusher II, anche qui il protagonista intraprende inconsapevolmente un percorso di redenzione, arrivando alla fine a commettere un gesto apparentemente inspiegabile ma necessario al compimento del suo cammino di espiazione. Puro cinema morale insomma, che può persino ricordare quello dei fratelli Dardenne.

Al contrario, il suo cinema recente è invece costellato di personaggi sovrumani dai tratti archetipici: l’invincibile guerriero con un occhio solo di Valhalla Rising, secondo alcune interpretazioni l’incarnazione di Odino; il Ryan Gosling pilota senza nome di Drive, praticamente un supereroe vero e proprio con tanto di costume (l’oramai celebre giubbotto bianco con lo scorpione dorato sulla schiena); il poliziotto thailandese di Solo Dio perdona in grado di estrarre la sua spada letteralmente dal nulla, personificazione della Nemesi; e infine le modelle di The Neon Demon, presenze astratte dai corpi impossibili, assai simili a quei vuoti simulacri che popolano le storie di Bret Easton Ellis. A Refn non interessano più le psicologie e i sentimenti, quanto la messa in scena e lo stile.

Il personaggio di Jessie, la protagonista del suo ultimo film, è un mero archetipo, spogliato di qualsiasi sentimento ed emozione. Soprattutto è privo di sessualità, se non quella artificiale che esprime durante il photoshoot con il fotografo (altro archetipo, del professionista freddo e spietato), in cui i due si “accoppiano” tramite la luce, il trucco, il diaframma della macchina fotografica, o durante la selezione con il luciferino stilista, il cui occhio lubrico non è affatto stimolato dal viso o dalle forme di Jessie, quanto da ciò che lei rappresenta: uno splendido diamante grezzo da plasmare e sfruttare fino alla sua totale consunzione. Anche qui, il rapporto tra i due, il fuoco che lei sembra risvegliare in lui, non hanno nulla di carnale. Contano le immagini, non i corpi. E di immagini, The Neon Demon, gronda. Laccate, subliminali, inquietanti, fantasmatiche, irreali, surreali. Refn costruisce il proprio racconto non tanto tramite dialoghi o snodi narrativi, quanto attraverso l’accostamento di inquadrature ricercatissime, squarci metafisici, insistite esplorazioni tanto apparentemente caste quanto intrinsecamente pornografiche del corpo – pardon, della figura – di Jessie. Non mi riesce difficile immaginare la macchina da presa di Refn che accarezza e palpeggia Elle Fanning allo stesso modo in cui l’occhio del fotografo o dello stilista del film accarezzano e palpeggiano Jessie, in un cortocircuito metacinematografico.

Difficile dire se la nuova direzione presa da Refn sia vincente o meno, di certo è estremamente coraggiosa: dopo il successo del capolavoro Drive, in grado di unire la concretezza del cinema d’azione americano degli anni Ottanta (il riferimento più evidente è Strade violente di Michael Mann) con il suo stile ricercatissimo, Refn ha deciso infatti di voltare le spalle al grande pubblico, che aveva appena fatto a tempo a conoscerlo, con Solo Dio perdona. Tutti si aspettavano un nuovo Drive in salsa thailandese, con Ryan Gosling di nuovo nella parte dell’eroe tutto d’un pezzo, e invece si sono trovati di fronte a una oscura storia di vendetta e rapporti edipici, dove Gosling non solo non è il protagonista, ma fa pure una gran brutta figura. Soprattutto, Refn ha portato all’eccesso il suo nuovo stile, estremizzando il mutismo dei suoi personaggi e rifiutando un coerente svolgimento narrativo in nome della dittatura delle immagini (la stessa strada intrapresa con risultati ancora peggiori dal figlioccio Gosling con il suo primo film da regista, l’improponibile Lost River). Dopotutto, basta vedere il documentario My Life Directed by Nicolas Winding Refn girato su set del film dalla moglie Liv Corfixen, per rendersi conto di quanto poco lo stesso Refn fosse convinto del progetto, tra una crisi di nervi e l’altra e una seduta di tarocchi tenuta da Alejandro Jodorowsky (a cui il film è bizzarramente dedicato).

The Neon Demon è una curiosa commistione di pop e cinema alto, comunque lontano da Drive, ma sicuramente un passo avanti rispetto a Solo Dio perdona grazie alla semplicità della sua trama e a uno stile sempre ricercato e personale ma meno respingente (e, aggiungerei, una maggiore loquacità da parte dei suoi protagonisti). Inoltre, la sua riflessione sul mondo della moda è meno banale di quanto sembra, e ha nell’idea della sublimazione dei corpi la sua arma vincente: la bellezza vista non come qualcosa di concreto, ma come una sorta di essenza metafisica che può essere confinata e consumata, come suggerisce la svolta horror del finale. Refn prosegue dunque coerente con il suo percorso incurante delle stroncature dei critici e dei fischi di Cannes, convinto che la critica professionistica non abbia più senso di esistere, e che i giovani blogger appassionati di cinema rappresentino invece il futuro. Ma questa, come si dice, è tutta un’altra storia.