In un passaggio della Montagna in Festa, uno dei protagonisti apre un cassetto e vi trova cd, opuscoli e fogli pubblicitari. «Uno degli opuscoli», leggiamo, «s’intitolava I significati del Corano, un altro era il Codice penale della federazione russa, un altro Come rimorchiare». Si sorride, ovviamente. Prima di questo punto del romanzo (circa un terzo della storia) non era ancora successo. Da questo punto in poi non succederà più: ritornerà a vincere il disorientamento, la tensione. Siamo in Daghestan, il crogiolo del Caucaso. La periferia della Federazione Russa in cui si incontrano àvari, lezghini, darghini, cumucchi, azeri… A scriverlo su Google Immagini, compaiono foto di spose in costumi ricamati, contadini a cavallo su panorami asiatici, ma anche ritratti di Lenin e di guerriglieri jihadisti. Una terra che nell’arco di poche decine d’anni ha visto il latino sostituire l’arabo e poi il cirillico sostituire il latino. Un luogo in cui il mondo dei Tuchum (clan familiari di modello caucasico), convive con la storia dei Kolchoz e della Perestrojka, mescolandosi con l’adat e le pratiche dei musulmani asiatici.
Alisa Ganieva il Daghestan lo conosce bene. Non solo perché vi è nata (“solo” 31 anni fa), ma anche perché col suo primo racconto lungo, Salaam Dalgat! (Tropea 2012), ha vinto il premio Debut raccontando proprio quel microcosmo così gravido di sogni e violenze. Oggi, con La montagna in festa (La Nuova Frontiera, 2015) dal pentolone ribollente e colorato del Caucaso del nord, la giovane scrittrice pesca una fantasia distopica e le dà forma e architettura. La distopia è molto semplice: i russi innalzano un muro che isola il Daghestan dalla Federazione, consegnandolo alle folle di “barbuti” e alla loro Shari’a. Tutt’altro che semplice, invece, la struttura narrativa. Ancor meno lo sfondo sociale e affettivo in cui viene collocata.
Forse la bellezza de La montagna in festa risiede proprio nella sua struttura di romanzo distopico in cui la distopia si fa attendere fino alle ultime pagine. Per lasciare spazio a un realismo che, nel frattempo, rimane in tensione, un realismo di grande impatto. La Ganieva ci mostra come si possa movimentare la tradizione di Gor’kij con un artificio alla Houellebecq. Viceversa come, a un romanzo alla Houellebecq, si possa dare un compito decisamente più esplorativo, che non disprezza l’indagine sociale, la ricostruzione storica e l’affresco folcloristico. Il risultato è quello di un’opera chiara. Le prime pagine disorientano un po’, è vero. Ma ciò è dovuto all’esotismo del materiale trattato. Per il resto La montagna in festa consegna alla mente del lettore molte immagini vivide di quel mondo lacerato, pieno di voci e identità.
Si è parlato di realismo. E si è detto che questo conquista chiarezza pagina dopo pagina. Ganieva utilizza l’andamento narrativo come un macchinario che mette ordine, che mostra le analogie dove non si vedevano e che progressivamente collega strati sociali, personaggi, vicende apparentemente disomogenee. È un libro di montaggio, combinatorio. All’inizio viene gettata una rete che si allarga a più personaggi, addirittura a più generazioni. Poi questa rete viene tirata: inizia a raccogliere. I personaggi si scontrano. Le generazioni si incrociano. Il presente si chiarisce e diventa più facile fare una previsione sul futuro. Quella tensostruttura di realismo e fantasia distopica è l’esito coerente dell’andamento narrativo della Montagna in festa.
E infine c’è la complessità affettiva di questo romanzo. La quale, in un certo senso, è il vero motore del macchinario narrativo. Un punto di partenza concreto, vitale, della narrazione esplorativa della Ganieva. In quel crogiolo di umanità in conflitto, la coppia è spesso un campo di battaglia in cui si manifestano le tensioni del Daghestan. Per esempio Shamil e Madina. Lui un giornalista disincantato e attento alla realtà. Lei che si fa invece travolgere dal furore jihadista. Il loro addio è un esempio di dialogo veritiero, vicino al parlato. Che mescola angosce sentimentali a requisitorie ideologiche. Che lascia Shamil a gironzolare confuso in un mondo dai costumi in subbuglio. Fatto di cellulari e locali notturni, di inviti a chattare scritti sui muri. Di negozi di moda che offrono sconti alle teenager che indossano il niqab. Forse è questa l’immagine più forte che ci lascia la Ganieva. Quella di un’erotizzazione diffusa, ma imbarazzata, balbuziente. Un’energia pressante ma sfuggevole, che i nuovi daghestani cercano nelle discoteche e nelle palestre, ma che alla fine si fa livida perché strattonata da troppi passati e da troppi presenti. Da troppe tradizioni in conflitto e da troppi futuri che premono. C’è una scena molto chiara. Shamil e gli amici sono a bordo di una macchina, la notte, quando vedono un gruppo di ragazze. Notano i loro jeans attillati, i tacchi, gli strass, così cercano di rimorchiarle. Quando ci riescono, i ragazzi spiegano che le hanno invitate a salire in macchina perché le trovavano attraenti. Poi precisano che una cosa, però, non gli è piaciuta. «Ossia?» chiedono ovviamente le ragazze. È Shamil a rispondere: «ossia che siete salite in macchina».
Alisa Ganieva, La montagna in festa, La Nuova Frontiera, Roma 2015, pp. 252 €17