Nelle poche foto che abbiamo, Stig Dagerman guarda dritto in macchina con espressione indecifrabile: a una prima occhiata sembra furbo, a una seconda triste, poi speranzoso, dunque scettico. L’ambiguità dello sguardo di Dagerman altro non è che la medesima, feconda, ambiguità che percorre i suoi scritti (in particolare qui mi sto riferendo a quelli raccolti in La politica dell’impossibile, attenta selezione recentemente pubblicata da Iperborea): scritti imprigionati nella loro natura di testi giovanili e che – come ricorda Goffredo Fofi – altro non potrebbero essere perché l’autore, come il protagonista del suo primo romanzo Il serpente (Ormen, 1945), ha deciso di concludere la propria vita anzitempo, a trentun anni.

Una giovane età che di certo non trapela dai suoi testi, percorsi da un’uguale eppure opposta vena di tensione alla libertà e pessimismo esistenziale che si intrecciano in un discorso che parte dalla storia per ritornare all’uomo, sia attore che suddito della stessa. Se, infatti, il tempo che Dagerman si è lasciato alle spalle è relativamente poco, questo non gli ha tuttavia impedito di lasciare ai posteri una vastissima produzione scritta percorsa da un’articolata e sempre viva riflessione sullo scorrere della vita umana, così terribilmente precaria, e sulla situazione sociale e politica del suo paese, la Svezia, uscita dalla Seconda guerra mondiale con una dignità debole e vacillante.

Proletario, figlio di un operaio anarchico, Dagerman riesce tuttavia a studiare con profitto, uno studio costante, mai dato per scontato e sempre sorretto da una fede politica anarchica, influenzata in principio dall’attività del padre ma subito sviluppata autonomamente in una direzione di analisi problematizzante dei rapporti tra individuo, azione e storia.

La prassi, così importante in Dagerman, è prassi quotidiana, gesto che si fa azione politica, e assume le sue forme sull’orizzonte di un altro termine, che ne plasma i significati: la riflessione sulla morte. Una riflessione profondamente esistenzialista che nasce da un’esperienza traumatica e a-storica della morte stessa. Dagerman, infatti, non l’ha conosciuta, come molti nei primi anni quaranta, in diretta relazione alla guerra che sta falcidiando l’Europa: le morti con cui ha a che fare sono immotivate, traumatiche e prive di senso. Suo nonno, a cui era profondamente legato, muore tragicamente nel 1940, per mano di un matto, senza che le azioni dell’aggressore possano essere correlate a delle solide motivazioni. Dopo il nonno tocca, nel ’42, all’amico Niels, anche lui vittima di una morte improvvisa, travolto da una valanga mentre faceva un’escursione.
La morte, dunque, è l’unico elemento certo nell’instabilità della vita, ma le modalità del suo sopraggiungere non sono sondabili. Alla morte Dagerman oppone la scrittura, unico mezzo per ricordare i propri estinti (Dagerman stesso definisce la sua opera “il libro dei miei morti”) e, al contempo, per opporre ai marosi della vita la certezza granitica della prassi.

Questo orizzonte del ricordo nella pratica della scrittura risulta particolarmente esplicito in Le strade di Klara, breve articolo del ’52 in cui Dagerman, passeggiando per le strade di uno storico quartiere che verrà demolito e ristrutturato a breve, riflette sulla naturale gelosia della memoria, che tutto vorrebbe sempre immutabile a come lo si è conosciuto, e sulla scrittura: unico possibile veicolo dei ricordi, inevitabilmente destinati a svanire per essere – in un processo spietato ed eterno – rimpiazzati e sostituiti di continuo dal nuovo (da notare che proprio in un albergo di Klara, lo racconta lui stesso, Dagerman ha ambientato la drammatica conclusione del Serpente).

Il reale dunque, implacabile, travolge costantemente l’autore, concretandosi nelle sue forme più umane, come il confronto con la morte e come l’aggressività dell’individuo, che prende a sua volta forma storica nella guerra e nell’oppressione totalitaria. Da qui, indubbiamente, nasce e si plasma l’anarchismo di Dagerman, che è un anarchismo non utopistico, solidamente legato alle possibilità che la quotidianità offre di ritagliarsi uno spazio di azione. La ricerca di libertà di Dagerman, allora, è prima di tutto personale, momentanea, mai veramente salvifica. Lungi dal farsi ingannare dalle false promesse di un futuro migliore, Dagerman conosce la situazione politica svedese e non si illude, con la sua ricerca e il suo attivismo, di poter ristrutturare dalle fondamenta un sistema sociale che, prima ancora di essere svedese, è europeo ed occidentale. Quello che si propone, dunque, in un’ottica collettivista, è di smuovere nell’altro la medesima libertà che brucia in lui, il medesimo fuoco di ribellione contro i fascismi, perché i fascismi quotidiani altro non sono che i granelli che, guardati più da lontano, formano l’immensa distesa di ogni dittatura.

Dagerman, da questa prospettiva, è un pensatore organico, in cui politica ed esperienza personale si fondono in un unico sistema compiuto, volto principalmente alla ricerca di un senso ultimo che possa essere posto a fondamento dell’attività umana in una prospettiva in grado di travalicare una vita che è sempre destinata a concludersi nell’oblio, lo stesso oblio che investirà il quartiere di Klara. Dagerman, con la sua pratica intellettuale ed emotiva, cerca di “toccare il cuore del mondo”, farsi interprete del sentire di tanti uomini che, sull’orizzonte degli eventi, sembrano essere un solo essere che sopravvive, soffre e muore in un unico concerto. L’ingiustizia sociale e l’oppressione da parte del potente sono dunque da combattere proprio in funzione della finitezza dell’umano e della ricerca di libertà individuale e personale che è poi, come abbiamo detto, inevitabilmente collettiva.

Stig Dagerman, tuttavia, non riuscirà mai nella propria prassi irreprensibile a sposare il ruolo di scrittore di successo – e dunque di scrittore della borghesia – accordatogli dai suoi romanzi, con il ruolo di anarchico pensatore della libertà da lui scelto e coltivato nei lunghi anni di studio e azione politica. Le catene della pressione sociale si insinuano nella vita privata e individuale: una contraddizione insolvibile se non con l’annullamento di sé stesso e degli altri. Dell’intera realtà.


Dtig Dagerman - La politica dell'impossibileStig Dagerman, La politica dell’impossibile, Iperborea 2016, pp. 144 €15