Se per il mercato cinematografico anglosassone l’estate rappresenta un periodo florido per quanto riguarda le presenze di spettatori in sala, la stessa cosa non si può certo dire per quello italiano, da sempre restio a programmare le uscite particolarmente forti a luglio o ad agosto (vedi lo slittamento dell’uscita del nuovo Independence Day – per la cronaca, parecchio deludente). Evidentemente, per noi italiani il richiamo delle spiagge è ben più forte di quello di una buia sala cinematografica, e i distributori nostrani per mettere assieme uno straccio di programmazione decente sono costretti a ricorrere alla famosa tecnica del raschiamento del barile, cioè si limitano a recuperare qualche uscita degli anni passati mai arrivata in Italia per darla in pasto all’accaldato pubblico estivo. In termini artistici il risultato è quasi sempre desolante, ma talvolta può capitare che in fondo al famoso barile, in mezzo alla sozzura, si nascondano pietre preziose, in attesa di essere scovate e portate finalmente alla luce. L’estate 2016 italiana, infatti, nel probabile disinteresse degli spettatori, propone tre piccoli capolavori horror (il genere più di moda del periodo estivo) degli anni scorsi passati inosservati al pubblico generalista, ma idolatrati dai cinefili.
It Follows, di David Mitchell, Goodnight Mommy, di Veronika Franz e Severin Fiala e The Witch, di Robert Eggers sono film molto diversi tra loro, ma se dovessi definire un tratto comune, un pregio condiviso che possono vantare, non avrei dubbi nell’identificarlo con la quasi totale mancanza di jumpscare: a questi film non interessa spaventare lo spettatore facendolo balzare sulla sedia, piuttosto preferiscono blandirlo con un’atmosfera malsana ma accattivante, trascinandolo lentamente in un mondo tanto affascinante quanto disturbante. Il jumpscare, quella tecnica che consiste, come suggerisce il nome, nel sorprendere lo spettatore con un’apparizione improvvisa accompagnata da un boato della colonna colonna sonora, magari anticipata da una fase di silenzio a fare da preparazione, è indubbiamente uno degli elementi più deleteri del genere, ma anche uno dei più facili ed immediati, e proprio per questo tra i più utilizzati dai registi che scarseggiano di idee. Basti guardare alcuni degli horror più recenti, soprattutto americani, per rendersi conto di quanto questi siano infarciti di jumpscare. Penso a pellicole fiacche come The Other Side of the Door, Friend Request, The Boy, ma anche e soprattutto ai film più quotati di James Wan, come la saga di Insidious o quella di The Conjuring e relativi spin off. Ai tre film di cui andiamo a parlare non interessa nulla di tutto ciò, non vogliono il salto sulla sedia, battono strade diverse, magari più ardue, ma dalla ricompensa infinitamente maggiore.
Di It Follows (appena uscito, il 6 luglio) ne avevo già parlato nel mio articolo sui migliori horror americani, ed è un piacere tornarci su ora che i nostri distributori hanno deciso di concedergli una possibilità in sala. L’”It” del titolo “che segue” è un mostro, una creatura dalle origini misteriose e inesplicabili, che segue implacabilmente la propria vittima fino a raggiungerla e ucciderla brutalmente. L’essere è visibile solo da chi ne ha subito la maledizione, e assume le sembianze di un essere umano, conosciuto o sconosciuto. Non si ferma mai, e mai si dà per vinto; la sua pazienza è illimitata, così come la sua determinazione. L’unico modo per sfuggirgli è quello di scaricare la maledizione su un’altra persona tramite un rapporto sessuale donandogli il marchio invisibile. Tuttavia, l’incubo non avrà mai realmente fine, perché se la persona contagiata verrà raggiunta e uccisa, allora la creatura tornerà a seguire il bersaglio precedente.
Date queste premesse, è facile immaginare come il regista David Mitchell abbia concepito la messa in scena della minaccia. Ciò che conta non è lo spavento immediato, l’esplosione di terrore che irrompe improvvisamente e subito si esaurisce dando spazio a una fase di latenza che la separa dall’esplosione successiva (spesso le due fasi sono identificate nell’alternanza notte/giorno). A questo andamento sinusoidale, It Follows preferisce una tensione costante e perenne, coerente con la natura del mostro. La minaccia è sempre presente, la creatura è costantemente in movimento alla ricerca della vittima, non esiste un luogo sicuro. È davvero geniale il modo in cui Mitchell ama ricordarci come non esista requie per i protagonisti: durante alcune sequenze apparentemente tranquille, di transizione, si intravede sullo sfondo una figura che cammina decisa verso i protagonisti in primo piano, e che sia il mostro o un semplice passante poco importa: questi inserti, che agiscono quasi a livello subliminale, hanno il potere di tenerci costantemente sulla corda avvicinandoci allo stato d’animo dei personaggi, senza bisogno di spaventi a buon mercato. Inoltre, anche questo utilizzo della profondità di campo inibisce l’uso di jumpscare: per essere riuscita, infatti, questa tecnica ha bisogno del campo corto e della protezione del bordo dell’inquadratura, da cui l’apparizione può saltare fuori. Non è un caso che i film che più di altri ricorrono all’utilizzo di jumpscare siano ambientati in case stregate o ambienti chiusi, in modo da obbligare la macchina da presa a stare a ridosso del protagonista permettendo così all’uomo nero di turno ampio spazio di manovra. La scelta di Mitchell è quindi controcorrente, coraggiosa e terribilmente efficace.
Ma It Follows non vuole limitarsi a essere un mero film di paura, e muove le sue pedine su uno sfondo che non potrei definire se non come straniante, quasi alla David Lynch. La cittadina in cui è ambientata la vicenda potrà sì ricordare i luoghi dell’Halloween di Carpenter, ma le atmosfere sono completamente diverse dato che sembra essere apparentemente popolata solo da giovani e giovanissimi, come se gli adulti fossero stati banditi per motivi misteriosi. Semplice vezzo dei regista per far interrogare i critici? Facile metafora del virus a trasmissione sessuale, a cui i giovani sono più esposti? Personalmente, credo che questa scelta sia frutto dell’intenzione di Mitchell di creare quasi un ambiente da fiaba, un mondo distante e favoloso da signore delle mosche in cui si muovono i giovani protagonisti minacciati da un mostro che altro non è che la Morte personificata, il nemico ineluttabile e invincibile in qualche modo esorcizzabile solo e unicamente tramite il sesso (e dunque, la procreazione).
Il 27 luglio è la volta dell’austriaco Goodbye Mommy, diretto dalla coppia Veronika Franz e Severin Fiala e prodotto da Ulrich Seidl, marito di Franz e regista famoso per le sue pellicole sulla miseria e lo squallore dell’essere umano. Il film racconta la storia di una madre e dei suoi figli, e della tragedia che incombe sulla loro casa, tanto moderna quanto isolata dal mondo. La madre, attrice per la televisione, è appena tornata a casa dopo un intervento chirurgico facciale; indossa una maschera, ha gli occhi iniettati di sangue per l’operazione e si comporta in modo molto strano con i figli, due gemelli sui dodici anni. Si è operata per la sua carriera da attrice? O in seguito al misterioso ”incidente” che ogni tanto viene menzionato, ma mai spiegato? E perché si rifiuta di parlare con il piccolo Lukas, dedicando invece le uniche attenzioni al gemello Elias? Ma soprattutto, dietro le bende e la maschera, si chiedono i due gemelli, c’è davvero la mamma o è stata sostituita da un’altra persona?
Quando il film di genere si incontra con il film d’autore, il risultato è sempre spiazzante, soprattutto se si parla di un film europeo, quindi lontano dalla spettacolarizzazione a tutti i costi tipica del cinema hollywoodiano. Goodnight Mommy non sente il bisogno di una colonna sonora accattivante o di una macchina da presa sempre in movimento, o ancora di un montaggio martellante. Come un film del maestro austriaco Michael Haneke, l’opera di Franz e Fiala è un collage lento e severo di immagini distanti e glaciali, ambientato nella modernissima casa di campagna che fa da sfondo alla vicenda. In questo film, ciò che interessa ai registi non è tanto il puro orrore, quanto il senso di mistero e sfasamento instillato nello spettatore dalle immagini fredde e geometriche. Nel cinema dell’orrore, la minaccia per essere spaventosa deve essere qualcosa di “altro”, di “esterno” rispetto ai personaggi, come può essere ad esempio il fantasma del vecchio in The Conjuring 2, ora nelle sale. In questo caso il “mostro”, cioè la madre, è sì una presenza inquietante, ma in qualche modo è allo stesso tempo una figura oramai accettata nella sfera domestica dei due gemelli, e quindi nella dinamica film-spettatore. Goodnight Mommy non cerca la paura, ma l’ansia costante, l’irrequietezza, il senso di mistero inspiegabile. Nel corso della pellicola si verifica persino un ribaltamento di ruoli (nessuno spoiler, si vede già nel trailer), e quando il buono si trasforma nel cattivo un senso di rassicurazione viene paradossalmente generato nello spettatore: se il mostro sono io, di cosa dovrei avere timore? A cavallo tra il film d’autore e il film di genere, Goodnight Mommy è un film particolarissimo, testimonianza vivente che un horror non deve necessariamente fare “paura” per essere comunque un grande film.
L’ultimo film in uscita (18 agosto) è probabilmente anche il migliore dei tre. The Witch di Robert Eggers è un horror atipico, terrorizzante e di enorme atmosfera, un vero e proprio classico contemporaneo. La trama è presto detta: siamo nel Massachussets, diciassettesimo secolo, epoca di fanatismi e fervore religioso. Una famiglia di coloni puritani inglesi viene bandita dal proprio villaggio per le proprie convinzioni religiose, e costretta a vivere in totale isolamento nella fattoria al limitare della foresta. Laggiù incontrerà il proprio raccapricciante destino per mano delle forze del male che abitano quei luoghi tetri e desolati.
Ciò che personalmente ho più apprezzato di questo film è che non vuole essere ambiguo nemmeno per un secondo. The Witch non vuole essere un horror psicologico in cui il sovrannaturale altro non è che la rappresentazione della follia del personaggi, o una metafora del male di cui l’uomo è capace. Nel film di Eggers, la strega esiste al di fuori di ogni ragionevole dubbio, così come esiste la magia ed esiste il Diavolo. La strega ci viene infatti mostrata nei primi minuti di film, intenta a compiere un atto che definire disturbante è un eufemismo. Il suo potere è allo stesso tempo reale e misterioso (come fa a rapire un neonato nel battito di ciglia, letteralmente, in cui la figlia maggiore lo perde di vista?), il suo scopo è la pura malvagità fine a sé stessa. Come suggerisce il sottotitolo del film – A New England Folktale – The Witch è una storia di fantasia pura e semplice, come i racconti sul Piccolo Popolo da raccontarsi attorno al fuoco, senza inutili orpelli psicologici.
Dopo il devastante prologo, il film si trasforma in uno stillicidio, un attacco costante e ininterrotto ai nervi dello spettatore, senza mai ricorrere alla tecnica del jumpscare o a sequenze truculente, fino a un finale così sopra le righe da essere quasi liberatorio in tutto il suo orrore. La paura viene generata dal mistero dell’inconoscibile, dall’uso stridente della musica, dalla recitazione di umani (devastante la preghiera a Cristo, quasi lussuriosa, del posseduto Caleb, oramai totalmente contaminato dalla strega), e animali (la lepre, il capro nero dalle movenze antropomorfe), dalle atmosfere tetre e plumbee, persino dai costumi, in grado di trasformare subliminalmente i gemellini in una sorta di nani deformi. E poi, non c’è niente da fare, nella nostra cultura è l’orrore a sfondo religioso che più ci terrorizza, come ben insegna L’esorcista. Alla figura della strega, che nell’immaginario popolare contemporaneo è oramai considerata come una buffa vegliarda che vola sulla scopa, viene restituita tutta la sua dignità di antico archetipo d’orrore, così come era nel New England dell’epoca, così come Goya la ritraeva nei suoi disegni.
È un peccato che il pubblico non possa godere al cinema di questi tre film in lingua originale – soprattutto per quanto riguarda il tedesco di Goodnight Mommy e l’affascinante inglese antico di The Witch (con i suoi thou e thy al posto dei moderni you and your) – ma è un compromesso accettabile per avere finalmente nelle sale questi piccoli grandi film. Non so quanto il pubblico estivo, alla ricerca di un rifugio all’aria condizionata più che di una vera esperienza cinematografica, potrà apprezzare questi film, così lontani dalla grammatica dell’orrore imperante nei film recenti più popolari (dei tre l’unico che può avere un valore commerciale è forse It Follows). Non potendo certo ammirare il coraggio dei distributori, il cui scopo era solo e unicamente riempire il vuoto estivo (a proposito, per film come Green Room o Midnight Special dovremo aspettare la prossima estate?), non mi resta che sperare che almeno uno spettatore in fuga dalla calura d’agosto, dopo aver visto uno di questi film, non trattenga uno sbadiglio al prossimo ridicolo fantasma in CGI sbucato dal nulla nel prossimo mediocre horror considerato degno di occupare le sale di settembre.