RAR_Le storie che i libri creano con altri libri: è un progetto letterario e artistico che lavora sul concetto di analogia portando alla luce legami tra opere di autori differenti, anche al di là delle storie che le opere stesse raccontano.
Le recensioni di RAR usano un metodo basato sul confronto di testi, che vengono intrecciati tra loro, come se fossero capitoli di una stessa Storia, che travalica le trame e gli autori. Come se si volesse creare un unico grande libro.
In un saggio della raccolta Altre inquisizioni di Jorge Luis Borges, Il fiore di Coleridge, si racconta di una teoria, con tanto di citazioni ed esempi a sostegno, secondo la quale è possibile redigere «una storia dello spirito come produttore e consumatore di letteratura»[1] senza menzionare alcuno scrittore, e questo perché le opere corrispondono tra loro «quasi fossero frammenti o episodi di un solo poema infinito», come scrisse P.B. Shelley[2].
Questa teoria potrebbe essere ambientata in quello che Roberto Calasso, nel suo L’ardore (Adelphi 2010), ha definito «il regno dell’analogia», cioè il regno delle corrispondenze: cioè il modo attraverso cui due elementi – o due testi – entrano in contatto e si trovano legati da un vincolo, da un nesso, da un’affinità; dove affinità significa che, per motivi non necessariamente evidenti e chiari, in un testo vi è qualcosa che lo accomuna con un altro, perciò qualsiasi cosa si dica di quest’ultimo per qualche via coinvolgerà anche il primo[3]. Perché, «di fatto, la letteratura è una lunga lotta di ridondanza in ridondanza»[4].
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Questo tipo di meccanismo vale allo stesso modo per un’opera singola, una sorta di miniatura del poema universale, che, al suo interno, attua una serie di richiami e rimandi che non solo portano avanti la narrazione ma la ispessiscono, ne approfondiscono e ne sfaccettano i personaggi, gli episodi, i punti di vista. E, di più ancora, la sostengono, ne determinano la coerenza.
Quando ho aperto Nel mondo a venire di Ben Lerner, pubblicato l’anno scorso da Sellerio nella traduzione di Martina Testa, non sapevo che l’analogia avesse larga parte nelle sue pagine e vi si muovesse con disinvoltura; una disinvoltura che inizia con il narratore alter ego dello stesso Lerner, che «crea al di sotto di sé un altro piccolo Lerner»[5], e si condensa nei vari episodi del romanzo, in cui spesso si riconoscono frammenti condivisi.
Elementi che nella lettura si ricompongono come se all’interno del romanzo si nascondesse un puzzle, inteso “come costruzione ma anche come decostruzione, ovvero come congegno che interpreta e governa”[6] il testo.
Ci sono espressioni come «È successo ma non è successo. Non è qualcosa di inesistente ma non è mai avvenuto», «È esistita senza succedere davvero» (133) che riecheggiano nel romanzo in svariate frasi, il cui significato coincide con queste prime due, che possiamo considerare incarnino, fra tutte, l’essenza di ciò che Lerner vuole ribadire, seppure in frangenti distanti fra loro, riguardo al rapporto che si instaura fra un evento passato e il ricordo che ne deriva. «Io me lo ricordo come un brano della Bibbia, ma mi sembra improbabile» (149) o «Capite cosa intendo se dico che l’aspetto più potente di quell’esperienza era il fatto che non era cambiato nulla?» (243) o «Se venissi a sapere che stava fingendo di morire, per me sarebbe morta» (244) o «Era l’unico tipo di primo appuntamento a cui tollerava di andare, perché a posteriori si poteva negare che fosse stato un appuntamento» (86) o «Tutto questo me lo ricordo, quindi vuol dire che non è mai successo» (p. 104) o «È stato un evento grosso nella sua vita, solo che non è mai successo davvero» (p. 132): sono modi distinti di rappresentare tale rapporto, cioè quello che resta di un fatto nel futuro. All’evento si contrappone una componente emotiva che ha il compito di assestare il passato, di colmare i vuoti naturali che si creano nella memoria, le rimozioni, e nel caso di darne una chiave di lettura che aiuti a interpretare a posteriori il fatto stesso.
In Lerner, ne esistono anche altre, di frasi, che invece ritornano pressoché identiche, quasi fossero pilastri della narrazione sparsi tra i paragrafi, e che sottolineano con un’immagine il funzionamento dell’analogia, nel caso specifico il ripetersi di una sensazione in singoli personaggi in circostanze isolate: «Il mondo si ricombinava intorno a me mentre io metabolizzavo le parole comparse su un display a cristalli liquidi» (48) si specchia in «Sentii il mondo ricombinarsi attorno a me, come se fosse morto qualcuno» (55), «Immagino che Bernard abbia sentito il mondo ricombinarsi attorno allo studente» (58), «L’autore sentì il mondo ricombinarsi attorno a sé» (85), «Il racconto del mondo si ricombinava attorno a lei» (135). L’elenco potrebbe continuare ancora e le frasi continuare ad abbinarsi nella lettura portando le pagine a perdere la loro importanza e normale successione.
La relazione passato-futuro in Lerner assume molto spesso la forma del lutto e più in generale dell’assenza: l’assenza determina ciò che persisterà nel presente di domani.
Quando Lerner cita Ritorno al futuro – film di riferimento nel romanzo a cui è dedicato il titolo originale 10:04 – e racconta di Marty aka Michael J. Fox che viaggia nel passato della sua famiglia portando con sé una istantanea che ritrae lui e i suoi fratelli e che piano piano inizia a sbiadirsi eliminando le figure, vuole mostrare come quel viaggio stia scombinando il passato, e di conseguenza il futuro, così come lo si conosce fino a cancellarlo, fino a provocare un’assenza del futuro (22).
Oppure, la morte di Daniel, un amico di gioventù del narratore, diventa una specie di archetipo del lutto. L’episodio fa il suo ingresso nelle prime pagine di Nel mondo a venire e riemerge in più punti a fianco di altri episodi dello stesso genere, in quanto segnale inequivocabile di una mancanza imminente, schierando quelle che sono le caratteristiche della morte; prima fra tutte l’imprevedibilità e l’arbitrarietà apparente con cui colpisce, senza rispettare parametri e contingenze – come l’età, una delle più banali e abusate giustificazioni o obiezioni in caso di morte – o l’eccezionalità con cui si presenta – come quando una coppia d’innamorati perde il medesimo giorno i rispettivi genitori, lui la madre e lei il padre.
In Lerner, questo tipo di approccio fatto di ridondanze potrebbe avere a che fare con la sua vocazione primigenia, la poesia, che costituisce una presenza rilevante nel romanzo tramite i riferimenti a Walt Whitman, Robert Creeley, Jack Spicer, Hart Crane fino al diciannovenne John Gillespie Magee.
Una tale agilità nell’uso dell’analogia rende difficile essere esaustivi nell’elencare tutte le eventuali connessioni che libera, tanto che presenta «il libro come qualcosa che non avesse né testa né coda, perché tutto al tempo stesso era testa e coda»[7]; tanto, altresì, da trascinarsi in libri presi in mano successivamente e spingere chi legge a ricercarvi le medesime analogie, agendo secondo una sorta di assuefazione, ignorando le formalità – d’autore, di genere, d’epoca – come richiesto da Paul Valéry nella citazione che dà il via a Il fiore di Coleridge per poter condurre una storia universale e spirituale della letteratura e illuminare, se è azzardabile il parallelo, il puzzle cui accenna Bolaño.
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I libri in questione sono due: Il sole dei morenti di Jean-Claude Izzo e Ogni giorno è per il ladro di Teju Cole. Le variabili da ignorare sono che, originariamente, Flammarion pubblica Le soleil des mourants nel 1999 e che Faber & Faber pubblica Every Day Is for the Thief[8] nel 2007, a cui si aggiunge che, sempre Faber & Faber, nel 2014, dà alle stampe 10:04. Gli autori pure sono da accantonare, insieme al genere e alla trama stessa. Non è così importante conoscere il percorso fatto dai tre autori o che vicende raccontino per riconoscere un parallelismo. Quello che interessa è il concetto stesso, da cui si sono poi snodate e sviluppate le storie. «Le connessioni che costituiscono l’essenza del pensare differiscono in modo peculiare dalle associazioni di rappresentazioni. […] Quando pensiamo non connettiamo, propriamente parlando, rappresentazioni, bensì cose, concetti, relazioni», come scriveva Gottlob Frege nel suo Alfabeto del pensiero.
Non è cruciale sapere che la vita di un clochard è al centro de Il sole dei morenti e non di Nel mondo a venire, o che quest’ultimo è un romanzo che esplicitamente gioca con la realtà e la biografia dell’autore mentre Ogni giorno è per il ladro è del tutto autobiografico. È importante che identifichino e riconoscano un meccanismo comune, transitivo tra le opere.
I tre romanzi non hanno, infatti, alcuna evidente parentela, eppure ci sono passaggi che risuonano tra loro in una specie di replica imperfetta.
L’adagio di Nel mondo a venire «È successo ma non è successo» càpita di sentirlo ne Il sole dei morenti. Quando Rico, il protagonista di Izzo, si chiede: «Perché quello che oggi è vero può non esserlo più domani?» (72), o se seguiamo Mirjana, che «sapeva trovare le parole giuste quando parlava. Il che non cambiava niente. Né la stronzaggine né la schifezza umane» (150), o ascoltiamo, nella seconda parte del romanzo, Abdou affermare: «È quello che ho pensato. Forse non era vero, ma a me andava bene così» (228), identifichiamo delle frasi che potrebbero comparire nell’elenco precedente che accompagna il motto di Lerner per la smentita che contengono, ristabilendo un equilibrio tra un fatto e gli effetti emotivi che produce. Quale sia il fatto, non importa, non questa volta; non importa quali siano le parole giuste di Mirjana o quello che ha pensato nello specifico Abdou.
Anche il modo in cui viene trattato il lutto ne Il sole dei morenti ha dei tratti in comune con Nel mondo a venire. La separazione di Rico dalla moglie Sophie per lui significa letteralmente la strada, mentre per lei vuol dire una seconda casa e un diverso compagno, come ne avesse creato[9] uno nuovo. Due situazioni agli antipodi che presagiscono due destini: la strada, che ammicca alla fine con costanza, si contrappone alla famiglia, che rappresenta la sicurezza e la stabilità. Dicotomia però capovolta dalla morte violenta e inaspettata di Sophie, che scombina il futuro così come ce lo si aspettava tanto quanto le circostanze descritte da Lerner riguardo alla morte smentiscono in maniera basilare e ricorrente la sua prevedibilità.
In Ogni giorno è per il ladro, già l’esergo si accosta a uno degli argomenti cardine di Nel mondo a venire, l’assenza. Cole riporta Mapmaker of Absences, espressione che si potrebbe considerare come un secondo titolo tanto racchiude ciò che rappresenta il testo. Se in Lerner l’assenza collega il passato con il futuro, in Cole la propria assenza dalla terra natia torna come spinta per mappare le differenze tra il passato nebuloso e il presente; tra il mondo del passato, la Nigeria, e quello che ha ritrovato durante il suo viaggio a quindici anni dalla partenza; tra le amicizie di un tempo e il ritrovarle ora.
Di fronte al suo amico d’infanzia Rotimi, ormai diventato adulto, Cole scrive: «Rimaniamo a fissarci per un po’, come se cercassimo di riconciliare l’immagine dei bambini che eravamo con quella degli uomini che siamo diventati. […] Eppure è lui, può essere soltanto lui, con quel ghigno inconfondibile. Lo stesso di quando era un timido bambino» (73). Quel ghigno nelle parole di Lerner sarebbe stato «trascinato dentro il futuro» (21) dal passato, come accade a Giovanna D’Arco nel quadro di Bastien-Lepage menzionato in Nel mondo a venire. L’eroina, chiamata da tre angeli a salvare la Francia, tende il braccio verso il futuro e quel braccio si fa trasparente e pare scomparire; Lerner ci dice che già si trova in un altro luogo, si sta materializzando altrove: i tre angeli, appunto, «la stanno trascinando dentro il futuro».
Per Lerner il passato è il tessuto su cui si installa il mondo a venire. Non c’è possibilità di isolare e di non imbattersi in elementi che migrino verso il futuro, proprio come ribadisce l’evanescenza del braccio di Giovanna D’Arco e insieme il persistere di un sorriso a distanza di anni nel libro di Cole.
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Verso la metà di Nel mondo a venire, Lerner si chiede «Come trovare gli scrittori con cui corrispondere […] nel senso più generale di una sorta di consonanza, come quando si dice che un racconto corrisponde alla realtà» (157). Cole gli risponderebbe citando l’episodio della volta che, a Lagos, tra la folla individuò una misteriosa lettrice e in lui si moltiplicarono le domande su come si fosse procurata quel libro, che lui conosceva, di Ondaatje e su cosa ne pensasse: «Vorrei tanto chiacchierare con quella donna che condivide un libro con me, e di cui, avendo in comune quell’unico dettaglio, so molte cose. […] Mi piacerebbe dirle con lo sguardo spiritato come a chi eccede nell’identificazione, “Dobbiamo parlare. Abbiamo tantissime cose da dirci. Lasci che le spieghi”» (34).
Le consonanze emerse nei tre libri sfruttano questo tipo di dialogo che procede quasi per traslato, come avviene per i significati e le parole. Lo sguardo spiritato cui si riferisce Cole ricorda lo spirito che dovrebbe portare avanti la storia universale della letteratura di Valéry.
Non credo ci sia una coscienza né una tempistica da rispettare nel dialogo tra Cole e Lerner né credo che Lerner sia il primo a porre la domanda e Cole l’unico ad aver risposto. Questa perpetua possibilità e ramificazione che si alterna tra il visibile e l’invisibile, tra il cosciente e il nascosto è ciò che sta alla base dell’analogia e, al contempo, dell’arte; è rigenerativa prima ancora di essere immortale.
[1] Citazione di Paul Valery tratta da Il fiore di Coleridge, in Altre inquisizioni, J. L. Borges, Mondadori, 2001, p. 915.
[2] Citato da Borges, p. 915.
[3] La citazione originale di Calasso riporta genericamente “a” e “b” al posto di “testo”: «Affinità significa che, per motivi non necessariamente evidenti e chiari, in a vi è qualcosa che lo accomuna con b, perciò qualsiasi cosa si dica di b per qualche via coinvolgerà a» (L’Ardore, p. 423).
[4] Tra parentesi, Roberto Bolaño, Adelphi, 2009, trad. M. Nicola, p. 330.
[5] La citazione originale vede al posto di “Lerner” il nome di Amleto: «Così Amleto crea al di sotto di sé un altro piccolo Amleto» (La tragedia vista in uno specchio, in Elogio della luce, Giovanni Macchia, Adelphi, 1990, p. 242).
[6] La citazione originale si chiude con la parola “destino” (Bolaño, op. cit. p. 171).
[7] La frase si riferisce alla presentazione che Baudelaire fa del suo Spleen de Paris in dedica e compare nel saggio Il folle banchetto del canonico Béroalde, in Macchia, op. cit. p. 18.
[8] Nel testo vengono utilizzate le seguenti edizioni italiane: Il sole dei morenti, Jean-Claude Izzo, e/o, 2011, trad. F. Doriguzzi; Ogni giorno è per il ladro, Teju Cole, Einaudi, 2014, trad. G. Guerzoni.
[9] Si tenga a mente la citazione della nota «Così Amleto crea al di sotto di sé un altro piccolo Amleto» (Macchia, op. cit. p. 242).