Uno dei tanti fili conduttori del Festivaletteratura in corso a Mantova fino a domenica, ormai giunto al suo ventennale, passa attraverso molte parole: migrazioni, confini, frontiere, muri, mari, identità, alterità. A far da collante, la presenza perenne e silenziosa del Mediterraneo, nome con cui cerchiamo di definire un’uniformità generata dalle differenze. Complesso fin da subito. Ciò di cui abbiamo bisogno è un insieme di coordinate, bussole, cartine, mappe umane ed attributi geografici per capire cosa è diventato oggi il territorio che abitiamo da più di duemila anni.
È così allora che in coppia, Franco Cardini e Alessandro Vanoli, tentano di riordinare il materiale storico di questo spazio geografico composito e contraddittorio che, dalla speranza brulicante dei primi anni 90, è passato improvvisamente, nell’arco di una quindicina d’anni, ad essere un’idea languente e ferita, abbandonata a se stessa e squassata dalla morte, subendo un tracollo che, a detta di alcuni, è solo agli inizi.
IL NOME DEL MARE
È con il famoso nome di thalassa che i Greci chiamano il mare: acqua. Enorme acqua. Tutto è acqua e, attorno ad essa, ruota l’esistenza degli uomini. Mi si perdoni la citazione scolastica, ma è Platone stesso nel Fedone (109 a-b) a dire che gli uomini greci vivono attorno al mare «come formiche o rane attorno ad uno stagno». Non è curioso, in realtà, che nella descrizione dello scudo di Achille fatta in Iliade XVIII, vv. 468 e seguenti, Omero (o chi per lui) ponga Oceano ai confini dell’intero creato: fuori il mare non è più thalassa, è Oceano, figura divina e impediente nei confronti dell’uomo, è un limite invalicabile, il primo confine dell’Occidente oltre il quale non è permesso andare, non è permesso il controllo che i Greci, con la loro idea di superiorità, percepiscono di avere sulle acque; concezione che passerà come ben sappiamo ai Romani e al loro Mare Nostrum. E gli altri? Nella Bibbia e nel Corano il mare è un oggetto distante; Hyam in ebraico vale per qualunque specchio d’acqua, è un luogo distante che resta lontano anche dalla narrazione (Giona escluso) e che poco interessa; allo stesso modo nel mondo arabo Bahr è uno spazio terribile, ma lontano. È con l’espansione di questo mondo, però, che il mare acquista importanza, ma non il nostrum. La conquista dei territori orientali porta gli arabi ad affacciarsi sullo specchio dell’Oceano Indiano fino all’Indonesia (oggi uno dei luoghi a prevalenza musulmana). Ed è proprio da questo Oceano che cambia la prospettiva di ciò che negli stessi anni medioevali veniva nominato Mediterraneo dagli europei: l’Oceano è uno complesso di concreta vastità e profondità, si apre su uno spazio ineguagliabile rispetto alla pozza ad occidente che viene infatti sdegnata, come afflitta da una sorta di provincialità. I turchi lo chiamarono poi Akdeniz, Mar Bianco, riprendendone l’aggettivo utilizzato dagli arabi, ma furono questi ad affrontare quell’Oceano che aveva terrorizzato greci e cristiani per secoli, aprendosi una nuova prospettiva e lasciando gli altri attorno alla pozza.
Ecco allora che solo partendo dal nome e dai suoi significati possiamo cogliere immediatamente la diversità prospettica che soggiace ai punti focali che la storia ha fatto e sta facendo forzatamente incontrare sulle rive di questo mare (oggi, le nostre). Esplorare il Mediterraneo non significa dunque avere a che fare con il Mare Nostrum, quest’acqua non può più essere definita “nostra” (appannaggio delle civiltà dell’Europa centroccidentale) né concettualmente né politicamente. Esso è uno spazio sul quale è sorto e crollato un numero imprecisato di confini e di limiti, ma che dopotutto ci riguarda perché nostro è il passato che giace in queste acque e nelle terre che vi si affacciano. Oggi la crisi che ci colpisce è identitaria, prima ancora che economica; sempre più estromessi dalle direttrici globali corriamo il rischio di ridurci ad un cortile vuoto e periferico del mondo, abbandonato a se stesso, una pozza davvero.
VENT’ANNI
La mattina dell’8 Agosto 1991 la nave Vlora, proveniente dall’Albania, scaricò più di 20.000 migranti albanesi nel porto di Bari. Questo evento fu, per noi della penisola, l’irrompere sconvolgente delle migrazioni per mare nella nostra storia. Non che di movimenti via acqua non ce ne fossero mai stati, eppure, proprio nel momento in cui i muri (il muro) erano crollati, che i lasciti della guerra parevano disciolti, il Mediterraneo, pensato allora come una base identitaria comune, si rivelò essere invece il viatico del diverso, dell’altro; invece che essere un’unità inserita nella diversità del mondo, esso diventò nuovamente teatro delle divisioni interne, della paura dell’invasione. Tutto questo e altro lo ha raccontato Gazmend Kapplani, autore albanese, affiancato da Alessandro Leogrande, il cui ultimo libro La frontiera è uscito quest’anno sotto seconda edizione per Feltrinelli. Kapplani non è mai salito sulla Vlora, né ha subito il fascino dell’esodo verso l’Italia, ma nello stesso anno si è invece indirizzato verso la Grecia, a piedi, per vivervi da immigrato fino al trasferimento in America: un uomo senza paese che ha scritto libri in quattro lingue diverse e che ha imparato a fare della propria condizione un punto di forza.
Kapplani, nel presentare la sua esperienza personale in Breve diario di frontiera uscito in Grecia nel 2006 e in Italia nel 2015 per Del Vecchio Editore, si sposta rapidamente sul versante filosofico/esistenziale della questione: l’esperienza migratoria è un tassello fondamentale per la costruzione dell’uomo; «non si può cogliere l’esistenza umana senza sperimentare l’emigrazione», dice al pubblico assorto, quasi come se la sperimentazione odissiaca fosse paradigma imprescindibile per la nostra vita («Non è dunque un caso se la figura delineata da Omero come esploratore della ricca varietà di forme connesse a questo mare possa essere poi indicata da Dante, a distanza di quasi due millenni, come eroe del sapere, come indomabile ricercatore di virtù e conoscenza» scriveva per l’appunto Umberto Curi sulla Domenica del Corriere del 4 Settembre, come se una traccia del DNA di Odisseo fosse presente in ogni uomo europeo). Ciò che pervade l’esperienza migratoria, per Kapplani, è un’intima fiducia nella capacità, da parte di chi si muove, di ricreare, reimpostare se stesso e il mondo che incontra. Tant’è che la differenza più reale diventa quella tra frontiere visibili e invisibili, dove sono le ultime ad essere peggiori: nel momento in cui valicare un confine significa oltrepassare un muro non presidiato, la vera sfida sta nell’affrontare lingue, costumi e spazi completamente nuovi e farsi accettare al loro interno. L’elaborazione letteraria poi, che sottende al problema della narrazione degli eventi, serve a dare un senso all’assurdo e a concretizzare quello spazio impercettibile che segna il confine tra due luoghi esistenti «in entrambi i quali risulti indesiderato».
L’esodo iniziato a Bari, come sappiamo, ha a che fare con il crollo del regime comunista fino a quel momento fortemente isolazionista (anche nei confronti dei paesi del Patto e la Cina): «un grande paese che si chiude nei propri confini si muta in una prigione a cielo aperto», continua l’autore, dipingendo l’Albania dei primi anni Novanta come un luogo intento a captare i segnali del mondo esterno, attraverso qualche segnale televisivo o qualche lattina di coca-cola sulla spiaggia (dalla descrizione viene a tratti in mente il film Good-bye, Lenin!); un luogo in cui la tragicommedia dei regimi comunisti è compensata da una vorace sete della popolazione verso quel mondo esterno proibito che, però, trovandosi da un punto di vista opposto non fa che configurare chi arriva come potenziale invasore, non come avventuriero o come malcapitato (si noti che gli esuli somali chiamano se stessi les aventuriers). È diffuso, precisa l’autore albanese, «un generale rifiuto dell’idea di migrazione. Quanti musei sull’immigrazione ci sono in Europa? Abbiamo anche il museo del salame, ma manca quello sulle migrazioni dei popoli.» La motivazione pare chiara: un migrante è un intruso del sistema in cui risiedo nel momento in cui, a parti invertite, le frontiere invisibili che agiscono su di lui, toccano anche me. Eppure questo rifiuto ha qualcosa di più congenito, come se richiamasse antiche colpe o atteggiamenti, è il rifiuto di chi rivede se stesso, e non solo per quel che riguarda l’Italia, ma l’Europa che, sola, si è trovata a colonizzare i tre quarti del mondo. Ecco allora un altro paradosso da smantellare: se i Greci avevano l’idea di possesso unitario di questo Mediterraneo è perché si spostavano, migravano, venivano accolti il più delle volte in maniera non bellicosa e perché allo stesso tempo colonizzavano. Le due anime dunque, contraddittorie oggi, trovano invece nel passato culturale comune un tempo di unione e di efficace identità, che oggi latita.
QUESTO MURO
Si dice sui libri di scuola che sia Terenzio l’inventore – inconsapevole – del concetto di humanitas. Abusato retoricamente, incompreso o storpiato, esso è però davvero fondativo per la nostra realtà. «Sono un essere umano e niente di ciò che è umano può essermi estraneo», questo il celeberrimo motto dell’Heautontimorumenos, titolo traducibile come “Colui che punisce se stesso”. Il problema della frontiera per Kapplani è l’ostilità dei due confini; come trovarsi tra l’incudine e il martello, con l’aggravante che spesso chi accoglie dimentica che la migrazione si chiama tale perché è, ancora prima che un arrivo a, una partenza da. Dimenticare o omettere le cause, significa ignorare un elemento fondamentale nel rapporto con l’alterità e questa relazione è proprio l’elemento cardine per superare il conflitto di valori interni che caratterizza la grande transizione vissuta dall’Occidente. Nella ridefinizione del proprio rapporto con l’altro sta una sfida fondamentale e non eludibile: dopo la grande Guerra Civile Europea che va dal 1912 fino al 1999, iniziata e finita nei Balcani, questo è il primo momento di un mondo senza frontiere e proprio tale esperienza pone una questione che non è burocratica, ma esistenziale. Partire dalla definizione di confini e dalla constatazione della loro assenza dunque aiuta il discorso storico e la comprensione del continuo riassetto di rapporti che sta innervando l’oggi.
“Confine” e “Muro” sono due parole sviscerate anche da Ilvo Diamanti nel suo Password (Feltrinelli 2016), presentato al festival assieme al vicedirettore de L’Espresso, Marco Damilano. Perché se c’è una falla in questo mondo senza frontiere, essa è proprio il caos che conseguentemente vi si è generato: esistono stati senza territorio (Is), territori senza stato (Libia, Somalia) ed entità vacillanti o astratte, come la stessa UE. Come ordinare questo caos? Il muro è sempre una risposta efficace, almeno per chi parla alle masse nei comizi elettorali; USA, Inghilterra, Francia, Italia, Ungheria, Macedonia e molti altri si rifugiano (o vorrebbero) dietro la barriera. Ma il muro, non permettendo alcun tipo di interazione tra le diversità, non lascia spazio nemmeno ad una definizione per contrasto; esso è un oggetto che rappresenta più una ferita che un punto di unione (funzione che è invece adibita, ad esempio, ai ponti, atti a unire le rive da cui rivalità, come ricorda Erri De Luca in un vecchio video). Diamanti sposta nell’interiorità (ma non solo) quei confini che Kapplani ha detto inesistenti nel nostro tempo.
Quasi socraticamente infatti, il giornalista di Repubblica pone la consapevolezza di sé e la crescita dei muri in un rapporto inversamente proporzionale. In un tempo senza frontiere è quindi imprescindibile sapere quali sono i confini, personali e altrui. Per capire, ciascuno deve osservare dove finisce l’altro e dove inizia il suo proprio spazio, ma ciò è possibile solo attraverso l’interazione ed ha l’aggravante di non avere una forma concretizzata quale, appunto, il muro. La muraglia però, senza scomodare quella montaliana, chiude sempre ogni visione, imprigionando in primo luogo colui che vi si barrica. Dunque il vero dell’identità si riduce ad una questione di confini invisibili ma reali, tracciabili solo attraverso la consapevolezza, chiari e reciprocamente condivisi ed accessibili solo attraverso l’interazione: con il ponte, non con il muro.
Inutile dire che su questo caos senza confini grava la pesante eredità, la “parte oscura” della globalizzazione che è per definizione assenza di barriere. Oggi la paura che serpeggia e alimenta i fuochi populisti delle destre di tutto il mondo non è la paura dell’invasione, ma è il frutto di un perfetto s-paesamento indotto dalla mancanza di misure. Questa è una paura esistenziale che chiede una certezza identitaria profonda e solida in quanto minacciata, non invero dal barbaro sulla nave, ma da un’assenza di conoscenza (o volontà di conoscenza) e di risposta su se stessi. Le società occidentali faticano a cogliere come la crisi di valori venga dall’interno, senza essere una conseguenza dell’immigrazione.
La domanda che i popoli pongono è una sola: chi siamo? La risposta a quest’interrogativo, però, ha due vie: la prima è di più faticosa e complessa comprensione, mentre l’altra passa attraverso l’indolenza e lì stanno i muri; il muro ha sempre una funzione di oblio cognitivo, tende a rendere ignoto o inesistente ciò che è dall’altro lato, istituisce una divisione sempre anti, mai pro, impedisce l’incontro, il fermento. Ed ecco allora un altro interrogativo chiave sollevato da Diamanti: questo non è più il tempo delle appartenenze indiscusse e irrazionali, ma si può vivere senza fiducia in qualcosa? Le frontiere hanno sempre dato un’idea di identità, senza confini non saremmo nulla, ma bisogna ricordare che questi non sono muri, essi si trovano nella consapevolezza personale del dialogo e nella cognizione attiva delle differenze.
Questa è la responsabilità più grande nell’abitare un mondo che si vuole libero.
UNA LINGUA NUOVA
«Ciò che passa dall’informazione di radio, TV, giornali sugli aspetti dell’immigrazione è quello che potremmo raccogliere con un secchiello andando incontro a un’onda». Alessandro Leogrande struttura così il suo giudizio nei confronti dell’informazione sul Mediterraneo: costituzionalmente incompleta. Alla base della comprensione dell’alterità e del suo punto di vista, si pongono infatti due problemi: la verità del dato e il linguaggio del racconto. Primariamente dunque c’è bisogno di un’informazione pulita e netta, di possedere i dati e le cifre per conoscere la portata e la localizzazione del fenomeno che ci investe.
Di questo si occupa Open Migration, associazione permanente al festival, componente della Cild (un insieme di 35 organizzazioni sui diritti umani) che narrerà per tutti e cinque i giorni le sue esperienze attraverso collaboratori e collegamenti diretti con le frontiere problematiche. Open Migration è una piattaforma che parte dai dati dinamici e si struttura attraverso strumenti comprensivi come un glossario o dei quiz per verificare le proprie conoscenze sul tema. Aiuta in maniera pratica l’informazione dimostrando con schemi, diagrammi ed articoli “puliti” che cosa sta accadendo nei punti chiave del Mediterraneo. Ma anche questo, da solo, non basta. C’è bisogno di toccare con mano il problema, di apprenderlo attraverso un linguaggio veritiero ed efficace.
Dato per assunto che l’arte possa ricoprire un ruolo chiave nel comprendere le diversità, resta da capire in che modo possa farlo. «Spostare il punto di vista dalla parte di chi arriva» è stata una frase ripetuta da molte figure intervenute e in effetti si potrebbe dar loro ragione. Oltre al già citato Kapplani, si fa carico dell’affermazione Alessandro Triulzi, professore di Storia dell’Africa Subsahariana a Napoli e presidente dell’associazione Archivio Memorie Migranti (AMM). Partendo dall’idea che l’emergenza sia un problema comune e impossibile da aggirare, egli si chiede cosa si possa fare qui, con chi arriva, come raccontare le esperienze di coloro che definisce giustamente “sopravvissuti”. Se l’esperienza del singolo si concretizza solo nell’atto della sua narrazione, diventa chiaro che nel silenzio non si è in grado di completare i propri atti, ma è altrettanto chiaro che si può condividere di più con chi ha avuto un’esperienza affine alla nostra: ecco allora che la soluzione diventa la produzione di materiale narrativo (libri, film, audio, video) che abbia come autori persone direttamente coinvolte nel processo migratorio, le quali, a loro volta, si facciano carico di raccontare la loro storia attraverso le esperienze condivise e i luoghi attraversati. È in questo modo che una serie di sfaccettature prende vita, il discorso diviene variegato di aspetti impensabili e non filtrabili da un’informazione estranea alla vicenda (uno su tutti il riso oltre la pena).
La formula di AMM è semplice ma efficace: sviluppare un contesto di ascolto. «Il racconto che facciamo si modifica a seconda dell’interlocutore», fa presente Gianluca Gatta, segretario dell’associazione, «affiancare emittente e ricettore facenti capo allo stesso contesto significa rilasciare le profondità di un tessuto narrativo che altrimenti risulterebbe inibito». La realizzazione di documentari e film, girati dai migranti stessi, è un lavoro di autonarrazione che avviene attraverso l’uso dell’italiano e la padronanza dei contenuti, prima che dei mezzi, i quali possono essere integrati e costruiti attraverso il lavoro di team all’interno dell’associazione. L’esperienza diretta soppianta la teoria.
Queste e molte altre le realtà sono le vie da seguire per capire cosa sta accadendo nel nostro mare e non solo, con che entità accadono i fatti, perché e da dove comincia tutto questo. Esse aiutano a comprendere l’humanitas che affonda nelle vite di chi fugge, ma soprattutto suppliscono alle mancanze degli stati e delle organizzazioni governative, dimostrando quanto il problema, veramente comune, sia influenzabile da chiunque, nel bene o nel male, anche negli aspetti più piccoli.
CROGIOLO DI PERIFERIA
Da queste note penso che possa emergere un messaggio univoco: il Mediterraneo, spazio di lentezze è davvero il nostro patrimonio comune, ha in sé la potenzialità di un’idea tanto solida da poter essere fondativa per un futuro. Il passato però non ritorna e il compito che è affidato al singolo è quello di riappropriarsi di tutto il territorio comune e di ridefinire se stesso e i propri confini, di capire il proprio tempo. La transizione del Mediterraneo segue i flussi delle barche e le impalcature dei muri, tuttavia siamo ancora in tempo per ripensare queste direttrici e instaurarne di nuove. Ci aiuta in questo la storia araba: non siamo che un mare di confine, chiuso e impedito rispetto alle vaste possibilità dell’Oceano, ma proprio questa percezione di marginalità è la chiave che può permettere una valorizzazione; ripartire dal crogiolo significa valorizzare le differenze attraverso un punto (o ponte?) d’incontro con l’altro. Perché è vero che dalla risposta che l’Occidente darà alla promessa e alla sfida che lo straniero porta con sé dipenderà l’esito di quest’epoca di transizione.
Forse in ciò può aiutare proprio quel detto di Platone con cui abbiamo aperto queste note, dimostrando come la forza delle parole può variare se mal compresa. La citazione infatti è ben più lunga e, a sorpresa, dice: «Io credo che la terra sia molto grande e che noi, che abitiamo tra le colonne d’Ercole e il Fasi, viviamo in una piccola parte attorno al mare, come le formiche o le rane attorno a uno stagno, e credo che molte altre popolazioni vivano in molte altre regioni simili a questa».
Se la diversità è la ricchezza di questa periferia del mondo, impariamo a capirla.