Che cosa dire e non dire in un romanzo che ha l’aspetto di un’autobiografia è il maggiore dei problemi. Ne ha consapevolezza Andrea Inglese (1967), poeta, saggista, membro fondatore di Nazione Indiana, che a pagina 57 del suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (in copertina il volto di Jean Seberg che guarda di sbieco mentre il fumo di una sigaretta le volteggia accanto) afferma: “molte cose vanno tenute sotto silenzio”. Fedele a questo imperativo, Inglese ha sfornato trecentosedici pagine, nelle quali, però, della vita del protagonista si dicono solo alcuni passaggi isolati da una trama collassata. Molte cose sono tenute sotto silenzio, è vero, e alla fine di questo personaggio possiamo raccontare solo pochi fatti (emigrazione, convivenze naufragate e nuove relazioni, vicende lavorative) piuttosto comuni. Lo stesso narratore non esita a confessare la “mancanza di densità biografica” (p. 179), la quale si stira e copre un buon numero di pagine perché diluita nella riflessione. Più che lo sciame dei fatti, delle situazioni e dei conflitti, il narratore imbocca di continuo la via dell’argomentazione e dell’analisi, a cui non conferisce l’autorevolezza del professore ma quella viscerale e istintiva di un uomo arrabbiato e in attrito con il mondo. Quest’angolazione, in esplicita ripresa di Luciano Bianciardi, efficace nello smontare una mitologia di Parigi, è il collante del libro e sorregge la sospensione del fatto narrativo, dando slancio a lucide quanto divertenti bordate.
Una recensione di un romanzo così fatto rischia di diventare una recensione delle idee ivi contenute. Per dare pesantezza alla recensione e al libro, racconterò la trama: il protagonista sogna fin da ragazzo Parigi, ha un primo contatto con la città grazie a una vacanza brevissima con gli amici e instaura una relazione a distanza della durata di due anni con Adèle (prima parte); dopo dieci anni di convivenza, si lascia con una ragazza di nome Andromeda e affronta il fallimento della relazione (seconda parte); fatica a inserirsi nella struttura universitaria francese (quarta parte); trascorre un periodo a Procida e decide di tornare a vivere a Milano (quinta parte); è tornato a Parigi, convive con una ragazza di nome Hélène e nasce una figlia (sesta parte). Ho saltato la terza parte perché è l’esegesi di un quadro rinascimentale, La liberazione di Andromeda di Piero di Cosimo, che rimbalza nell’esegesi di un fatto privato, la chiusura della relazione del protagonista con Andromeda.
Una volta raccontati i fatti, ripercorrere anche i passaggi argomentativi salienti significherebbe snaturare la forma romanzesca del libro e privare il lettore di quella fusione fra anima narrativa e anima saggistica che dà lucentezza a ciascuna delle due. A libro chiuso, ciò che rimane non sono la trama né le idee, ma la loro relazione: come da una situazione germina un ventaglio di intuizioni e da un piccolo evento si srotola una teoria di considerazioni più generali. La sua autobiografia sarà un tour nell’incessante sfarfallio della mente, nelle cui reti ogni dettaglio viene radiografato e reso significante.
ll materiale del libro scorre come un fiume in piena, mosso da una lingua inventiva. I periodi ampi sono giravolte retoriche dove da un dettaglio ne scaturiscono altri dieci, in un horror vacui variegato e colorato, fotografico e corposo, in continua espansione sulle guide di una onnivora precisione lessicale. Un dire zeppo che quanto più aggiunge tanto più trascina. Come quando parla di una rivista autoprodotta, uscita dalla sgangherata bohème di un gruppetto parigino, che diventa – al termine di un unico periodo in cui dalle stanze sudicie si passa ai vari supporti della scrittura – uno “stagno-rivista”, “lì, all’aperto, esposto ai quattro venti, al gigantesco sistema viario costituito dalle menti alfabetizzate, che ovunque si muovevano gettando sguardi su superfici scritte” (p. 68). Questo è solo un esempio della girandola linguistica che ruota di continuo lungo le oltre trecento pagine; girandola che spesso è azionata dal soffio dell’ironia: innumerevoli scene e scenette sono degne di grandi risate, come il racconto delle “idee-base” (pp.42-45) – eufemismo che indica le idiozie messe impulsivamente in atto; o le confessioni circa la propria inadeguatezza alla vita accademica e i siparietti imbarazzanti inscenati da ignari professori.
Pressata anche Parigi sotto il torchio di questa lingua, la sua aura fa presto a dissiparsi. Scansato il rischio di costruire una “guida turistica letteraria” o un “romanzo turistico” (p. 51), il narratore fa agire la città francese in relazione col protagonista e non viceversa. Non ci mostra le orme dei grandi nomi del passato, bensì il sorgere e l’affievolirsi di una “credenza” (p. 20) nella capitale francese, raggiunta la convinzione che “una città non esiste, o meglio, della città esistono miti più o meno corposi, narrazioni che tutti quanti riprendono” (p. 50). La vicenda si snoda in uno spazio depurato di ogni mitologia, ma che mantiene quella vicenda in ostaggio del mito: le donne parigine e l’università parigina devono essere in un certo modo, portando le aspettative a un certo grado di soddisfazione (le prime) o di insoddisfazione (la seconda) in relazione alla fama che le circonda.
Ma mentre il mito di Parigi frana, al centro del romanzo se ne trova un altro (come si è detto, nella versione di un pittore rinascimentale), usato per interpretare una situazione personale. Come a dire, del mito comunque c’è bisogno. Il protagonista fa sì i conti con una città demitizzata ma alla fine la sceglie ugualmente, perché ha “impara[to] a «starci dentro»” (p. 13). Se questo è il sugo della storia, la sua traiettoria zigzagante sbocca nel lieto fine, con la nascita della prima figlia e lo spensierato passeggio in un mercato rionale, dove “la scarpe costano dieci euro” (p. 316) e i romanzi chiudono il loro cerchio.