Il nuovo numero di «Riga», dedicato a Goffredo Parise nel trentennale della sua scomparsa, è quasi eccessivo: più di cinquecento pagine, ricchissime di interventi critici sull’opera, di inediti dell’autore e di aneddoti narrati con penna lieve dalla compagna Giosetta Fioroni. C’è da imparare molto, anche per chi non sia affatto digiuno di Parise, e da rilevare la smentita del saggio secondo il quale il pesce puzzerebbe per forza dalla testa: a volte, la testa puzza, ma il corpo no. Ovvero: l’editoriale in apertura del numero, a firma di Andrea Cortellessa e Marco Belpoliti, non persuade e risulta a sé stante, ma tutto il resto è tanto eccellente, a parte i numerosi refusi, che la mole non deve spaventare e le giornate intere riservate alla sua lettura saranno ben spese.
Quindi, soltanto i più pignoli insisteranno nel lamentarsi di quel dispiacere iniziale, dell’odore della testa. Ma proviamo ad annusare meglio: sembra subito evidente come i due curatori siano tanto ideologicamente distanti da Parise da non riuscire ad accettare che lo scrittore vicentino dissenta retrospettivamente dalle loro posizioni, che sono più simili a quelle dei suoi detrattori, nonostante un’accorta opera di mascheramento. A tal proposito, si ha anche occasione di leggere l’aspra reprimenda di Giorgio Bocca, che accusava Parise di essere nient’altro che «una banderuola politica» e di disinteressarsi «del fermo di polizia, delle trame nere, dell’attacco sistematico alle forze democratiche, della involuzione autoritaria»: tale schiettezza comprende anche l’irrisione dei “sentimentini” ai quali il Sillabario n. 1 del 1972 darebbe voce, ed è lontanissima dal tentativo un po’ goffo (ma suadente) di Cortellessa e Belpoliti. Questa la loro preoccupazione: Parise non andrebbe lasciato nelle mani di chi vuole farne «un pioniere dell’anti-ideologismo oggi alla moda», ovvero «un antesignano degli anticonformisti a contratto d’oggi» e bisognerebbe, al contrario, riscoprirne la caratura politica, anche forzando la rappresentazione che lo scrittore tendeva a dare di sé stesso, più come un vezzo che con cognizione auto-analitica. (Riguardo alle mode: sono come il naso per chi sia sprovvisto di uno specchio, cioè è grosso sempre quello degli altri). Insomma, Parise sarebbe stato molto più impegnato di quanto fosse disposto a riconoscere.
«Il suo reazionarismo è soltanto isterico»: sbagliava Pasolini, allora, a bollare così l’opzione politica e culturale di Parise, rinfacciandogli la mancanza di quel coraggio che sarebbe servito, al tempo della neo-avanguardia e del Movimento Studentesco, per prendere pubblicamente posizione contro quelle «due mode sottoculturali e terroristiche». Sbagliava, secondo i curatori, chi non riusciva a rintracciare, in mezzo al distacco apparente o alla pura strafottenza dell’autore dei Sillabari, «l’aspirazione a un paese diverso», che sarebbe invece presente nel fondamentale inedito che viene proposto ai lettori: La politica (trotto leggero), risalente con ogni probabilità al 1977. Difficile nascondere l’ispirazione autobiografica di questo romanzo interrotto: il bambino che ne è il protagonista, che prima si chiama Giorgio e che, nel giro di qualche pagina, viene sbadatamente ribattezzato Giacomo, sarebbe forse diventato Goffredo, se Parise avesse proseguito nella scrittura. La vicenda, infatti, riprende e amplifica quella che lo scrittore aveva presentato in prima persona, molti anni prima, in L’aceto sulle ferite, uscito su «Il Borghese» nel 1953 e facente parte, poi, de Gli americani a Vicenza e altri racconti. 1952-1965, raccolta che è stata appena ripubblicata da Adelphi a cura e con una Nota al testo di Domenico Scarpa, e che contiene anche la riproduzione della Nota introduttiva di Cesare Garboli alla prima edizione mondadoriana del 1987.
«Era quasi appena nato quando cominciarono a rompergli le scatole con la politica»: quella de La politica (trotto leggero) è la storia di «un tormento, una persecuzione». Giorgio/Giacomo è un alunno piuttosto diligente, ma cocciuto e sempre a caccia di spiegazioni razionali di ciò che succede e gli succede. Questo piccolo illuminista, che frequenta la scuola dei preti, si trova a dover fronteggiare le loro richieste di un’offerta di mattoni che possa permettere la costruzione della chiesa: certo, l’offerta dev’essere «spontanea», ma chi non la farà o ne farà una non abbastanza cospicua dovrà reggere lo sguardo inquisitore dei compagni più zelanti e rassegnarsi a ricevere una pagella non proprio equa, a fine trimestre. «Ma questa è politica, questa è ideologia!»: si morde la lingua, Giacomo, cerca di non sbottare, di non svelare questi suoi pensieri, e si rende conto di aver nominato una cosa nuova, realizza che quella è stata la prima volta in cui ha sentito risuonare nella sua vita la «campana rompiscatole della politica», che quelle sono state le originarie «scocciature politiche» della lunga serie che dovrà affrontare. Politico è, per Parise, il ricatto che Don Claudio pone: si comporti come vuole, Giacomo, ma sappia che, insomma, l’offerta sarebbe bene farla, e che la comunità gli sarà riconoscente. Ecco: si richiede il suo “sacrificio”, il suo impegno, ma arriveranno le soddisfazioni, poi, i favori, i buoni voti… La politica, tuttavia, non finirà mai. Dopo i preti, saranno gli amici a volerlo coinvolgere, a contestare quel suo atteggiamento di disinteresse, di fronte agli eventi storici che si andavano svolgendo: il compagno Licurgo, per esempio, progressista tutto d’un pezzo, erudito e, però, fisicamente menomato, che incalza e censura ogni voglia di spensieratezza e di gioventù. Allora, Giacomo reagisce con pensieri maligni e realistici, derivanti dall’osservazione razionale dei comportamenti: non sarà che Licurgo non è fascista soltanto perché, mancandogli un piede, non verrebbe accettato da quei fanatici dell’esibizione maschia e guerresca? A guerra archiviata, infine, l’adolescente Giacomo, nonostante abbia svolto la propria piccola parte nella guerra di liberazione, non partecipa alle sfilate dei partigiani, che gli sembrano ridicole quanto erano tetre quelle dei fascisti, prima: Liberazione, con tanto di maiuscola, non significava forse liberarsi della politica e di tutto quel recente tragico passato, così da poter «andare finalmente in montagna, girare coi pattini, girare con la bicicletta insieme con le compagnie di ragazzi, leggere, studiare poco, pochissimo, e far l’amore»?
«Non ho capito mai il significato della parola ideologia, che pure ormai anche gli asini sembrano capire. Ma, quando la sento pronunciare, una piccola voragine di nulla si forma nel discorso di chi la pronuncia e rende vano il resto. Per me la parola “ideologia” è flatus vocis, nel migliore dei casi; nel peggiore il latinorum di Don Abbondio a Renzo»: era il 1971 e Parise sembrava rifiutare questa «comunissima e per me incomprensibile parola» che pure egli stesso aveva più volte utilizzato. La rifiuta perché ne annusa il meccanismo di funzionamento, ne avverte la pericolosità, preferisce far finta non capirla, forse – io direi che l’ideologia è ciò che arma la politica, che permette l’istituirsi del ricatto, e Parise mi sembra proprio uno che non vuole sottostare ai ricatti, che non accetta di subire il gioco vigliacco delle ideologie, siano esse letterarie o politiche, perché la dinamica è la stessa: se non firmi questa petizione o non ti schieri così, vorrà dire che sei reazionario; se stai dalla parte giusta e mostri il tuo interesse o fingi di mostrarlo, sarai servito e riverito, vivrai con comodità. Ma tutto questo è molto noto e già discusso, a partire dalla voce “Antipatia” dei Sillabari, da quel «non me ne intendo» opposto alle insinuazioni dell’interlocutore telefonico che Raffaele La Capria aveva già rilevato: un’alzata di spalle rivoluzionaria, in un decennio, quello dei Settanta, gravemente malato di perversione e violenza ideologica, e «non me ne intendo» riecheggia testualmente anche in La politica (trotto leggero), stavolta come tentativo di giustificazione dell’astensione dal voto di Giacomo.
Come proteggersi da quei ricatti? O con la poesia, abbandonando l’arena, o provando a dire la propria, anche politicamente, ma senza permettere che l’ideologia infetti i discorsi, opprima i partecipanti, fomenti il risentimento, additi i capri espiatori. Certo che, in tutto Parise, e non soltanto in questo abbozzo di romanzo, c’è e splende «l’aspirazione a un paese diverso», ma il paese che Parise auspicava mi sembra diverso da quello al quale mirano Cortellessa e Belpoliti. Nella volontà di attribuirgli una preoccupazione politica “positiva”, in questa “ansia di nobilitazione”, c’è tutto ciò che Parise detestava, cioè la ricompensa per l’impegno ideologico che non ha mai smesso di rifiutare. L’impegno, in Parise, è difensivo e personale, sta nella necessità di conservazione della propria salute e nella lotta affinché la vita non vada in rovina per “altre” cause che non siano quelle fermentate nella vita stessa: egoismo? Sì, e per fortuna, aggiungerebbe chi è convinto che l’ottimo collettivo si raggiunga attraverso numerosi egoismi ben formati, che faccia meglio alla comunità, cioè, un buon egoista felice, piuttosto che un ideologo infelice, impegnato nel costante allestimento di nuovi ricatti e nuovi capri espiatori. (La vogliamo buttare in politica del tutto e definitivamente? Credo che la sinistra avrebbe da guadagnare più dalla lettura dei Sillabari che dall’ossessione della multitudo di Antonio Negri). Un “paese diverso” è anche un paese che riscopra i “sentimenti elementari” e la “logica elementare”, nel quale gli individui non permettano intrusioni indebite e prepotenti nel proprio privato, non portino a corruzione il linguaggio che li unisce, non siano costretti a rompere amicizie e litigare sotto lo sguardo soddisfatto del profittatore politico di turno. Non esistono due Parise, come vorrebbero dimostrare i curatori con poche prove a sostegno, ma esiste un Parise solo e di una razza strana, quella più scomoda: la razza degli Orwell e dei Camus, dei libertari che, un po’ controvoglia, sono stati costretti a dedicare un po’ del proprio tempo alla discussione politica, per difendere il diritto di ogni uomo solitario a godersi in pace la propria vita. Se una lezione riusciamo a trarla dal Novecento, infatti, è proprio questa: i suoi migliori scrittori politici sono quelli che hanno protestato contro l’invadenza della politica.
Giorgio contro Don Claudio, Giacomo contro Licurgo, Goffredo contro la quasi totalità degli intellettuali progressisti a lui contemporanei: come il Winston Smith di 1984 contro O’Brien, l’eterno avversario, che vuole convincerlo che due più due possa anche non fare quattro, qualora sia il Partito a volerlo. Chi l’ha capito meglio è stato proprio l’amico Raffaele La Capria, che sigillava così, in Letteratura e salti mortali, il periodo che entrambi avevano vissuto, quella «nube tossica» (Garboli dixit) di ideologie letterarie e politiche che, dopo decenni, stiamo ancora provando a disperdere: «Al distacco tra la parola e la cosa, alla perdita della cosa attraverso il linguaggio, e allo stravolgimento ideologico del cuore che questo ha provocato, mi ha fatto pensare l’intervista alla televisione di Biagi a una giovane terrorista, una ragazzina dell’età di mia figlia. Biagi le chiedeva: “Prova rimorso per le persone che ha ucciso?”. E lei, senza batter ciglio, rispondeva: “No, perché quello era il mio percorso”».
Goffredo Parise, «Riga 36», a cura di M. Belpoliti e A. Cortellessa, Marcos y Marcos, Milano 2016, 544 pp. 28€