Ultime storie e altre storie (2014) è l’ultimo libro tradotto in Italia di William T. Vollmann, e l’ennesima dimostrazione del suo talento inesauribile, oltre che della sua grafomania instancabile: le settecento pagine di questo volume si aggiungono infatti a un corpus che tra fiction, non fiction, reportage e teoria filosofica ne conta già almeno quindicimila.

In quarta di copertina questo libro viene paragonato a Europe Central, ma più per ragioni editoriali che per altro: infatti i racconti di Europe Central (che in Italia è il romanzo più famoso di Vollmann, ed è sempre edito da Mondadori), grazie alla ricchezza dei riferimenti interni e al ricorrere dei protagonisti, formano un romanzo enciclopedico e vastissimo, caratterizzato da una forte unità di impressione e tematica, mentre i racconti di Ultime storie e altre storie sono isolati e autoconclusivi, divisi in sezioni sulla base dell’ambito geografico (Serbia, Carso, Boemia, Messico, Norvegia, Giappone) e non in ordine cronologico, come quelli di Europe Central.

Chi già conosce il lavoro di Vollmann sarà piacevolmente sorpreso di imbattersi in una prosa più aerea e leggera del solito, pur ritrovandovi sempre quella spontaneità degli scarti e delle ellissi e quella ricchezza cromatica e metaforica che caratterizzano la sua scrittura e non mancano di incantare. Quasi ad apertura di libro, si può prendere come esempio questo passo da Il fantasma smemorato:

Il profumo di muschio è fatto di nuovo e di vecchio insieme. Dopo che la materia morta si è trasformata in terra pulita, la terra si ravviva inverdendo. Ricordo che i miei genitori, ormai vecchi, erano soliti passeggiare con me in una silenziosa palude. Il fango, lì, profumava di pulito e di cioccolato amaro. Mi ritrovavo ora a respirare lo stesso odore muscoso, e gli aghi caduti di cryptomeria scurivano le loro sfumature verdi e arancioni mentre una nuvola lentamente nascondeva il sole. Avete mai visto la palpebra di una lucertola chiudersi sul suo bulbo oculare? Se sì, siete certamente entrati nelle regioni spettrali in cui anch’io mi sono trovato all’oscurarsi del sole. Allo stesso modo, non ero andato pericolosamente lontano: dall’altra parte del muro, piccole auto ronzavano dolcemente, trasportando scheletri viventi verso innumerevoli destinazioni ante morte. Rassicurato dalla superficialità del mio coinvolgimento, raggiunsi la tomba più vicina (p. 488).

«La superficialità del mio coinvolgimento», dice il fantasma: e infatti quasi tutti i racconti sono favole o satire – favole mitiche che richiamano, in minore, le indimenticabili pitture rupestri de La camicia di ghiaccio (penso a tutti i racconti della quinta sezione), e satire sfrenate, ma partecipi, dei motivi lovecraftiani (Il tesoro di Jovo Cirtovich) o del racconto gotico più macabro e ridicolo (Una moglie fedele, La promessa del giudice).

L’eccezione è composta dai tre racconti serbi della prima parte, che ricordano molto da vicino un reportage. E in effetti, quando il protagonista è un anonimo giornalista americano, si riconoscono chiaramente fatti della vita dell’autore, come la morte di due suoi colleghi a causa di una mina: il racconto vira nel reportage, nel mémoir. Vollmann, anzi, che pratica il genere sin dall’Afghanistan Picture Show, del 1992, e che ha dato alle stampe nel 2011 il reportage da Fukushima La zona proibita, scrive un paragrafo quasi programmatico sul rapporto tra osservazione del vero, esperienza personale e letteratura:

L’americano se ne stava seduto: beveva e ascoltava, a volte si accorgeva che qualcuno diceva delle cose importanti, ma lui per rispetto evitava di trascriverle in loro presenza, pur facendo del proprio meglio per ricordarle con precisione (…); presumeva che nessuno di loro capisse perché ciò che dicevano potesse interessare altre persone e altre epoche; del resto non aveva soltanto un valore effimero anche per loro che già comprendevano le granate? Magari, nel giro di dieci o vent’anni, posto che sopravvivessero così a lungo, avrebbero per fortuna dimenticato il significato di quello che dicevano in quelle situazioni, quindi, se lui avesse messo tutto per iscritto e loro l’avessero scoperto e letto, vi avrebbero trovato un significato nuovo e forse ne avrebbero tratto persino una specie di soddisfazione (p. 39).

Tolti questi tre racconti iniziali, tuttavia, quelle di Ultime storie e altre storie sono tutte storie di fantasmi: le oltre settecento pagine del libro letteralmente pullulano di spettri, streghe, vampiri, vricolache, coboldi e masticatori di sudari. Non si tratta, attenzione, di storie orrorifiche: non c’è niente di spaventoso, infatti, nei toni divertiti e complici di Vollmann, che si potrebbero paragonare alla strepitosa ultima scena de I tre volti della paura di Mario Bava, in cui la camera si allarga sul viso emaciato e sanguinolento del vampiro interpretato da Boris Karloff per rivelare la folla dei macchinisti, le scenografie e i poveri effetti speciali. Si tratta invece di storie di fantasmi, cioè di revenant.

Se infatti il racconto dell’orrore si concentra sull’idea che il mondo che abitiamo è intrinsecamente malvagio, o perlomeno che è popolato da forze di raggelante incontrollabilità e indifferenza, la storia di fantasmi nasce dal pensiero che il confine tra vita e morte è attraversabile – e che dunque vita e morte, in una certa misura, si equivalgono. E recitano appunto così i primi due (di quattro) assiomi con i quali Vollmann apre il libro:

  1. Posto che i morti continuino a vivere, i vivi devono assomigliargli.
  2. Ammettendo una tale somiglianza, non dovremmo escludere la possibilità di essere, già ora, defunti (p. 13).

Nel mondo che tratteggia Vollmann, vita e morte paiono equivalersi, separate da un confine labile e facilmente attraversabile: così la protagonista deceduta di Una moglie fedele può tornare senza particolari difficoltà dal marito, e l’ispettore de La promessa del giudice può morire per andare in missione nel mondo dei morti, tornando ogni alba a fare rapporto. E d’altra parte, un mondo simile è sì allegro e consolatorio se si considera che allora niente muore mai davvero, ma anche pallido e malinconico, se si trae la conclusione ovvia che la nostra vita si riduce solo al vagolare senza scopo di uno spettro. È quello che succede al Fantasma della macchina fotografica, che proprio immortalando l’essenza degli esseri che incontra ne coglie l’impotenza e la labilità:

La cameriera che ci aveva servito il saké in quel ristorante al diciassettesimo piano era lì tutti i giorni: rugosa e gialla, e le faceva male la schiena. Chi era, io o lei, la persona che si era dimenticata di essere viva? M’inchinai, battei le mani due volte e pregai: Per favore, mi conceda di salvarla dalla morte. Lei annuì, sorridendo con coraggio. Sollevai allora la Leica del vecchio, anche se non c’era la pellicola all’interno. Non appena ebbi guardato dentro il mirino, vidi che lei era un ramo di pero in fiore ingioiellato dalla pioggia, immutato da molto tempo. Dopo di che lei disse: Ci siamo incontrati, perciò dobbiamo separarci.

Come potrò sopportare questo dolore? La vedo ancora. Ora è morta (p. 521).

Su questo sito mi è capitato di recensire un libro dai temi non troppo diversi da questo, L’addio di Antonio Moresco: e anche se un confronto è tutto sommato improprio, perché si tratta di libri diversi nei modi e nelle intenzioni, è difficile non apprezzare ancora di più, vicino alla puntigliosità ottusa e burocratica con cui Moresco insiste per spiegare tutto procedendo per simboli grossolani, la libertà di ispirazione e il dinamismo espressivo di Vollmann. A Vollmann infatti non interessa fondare una metafisica, ma raccontare l’importanza misteriosa e drammatica di ogni vita umana: e il soprannaturale che permea Ultime storie e altre storie è solo uno dei vari mezzi con i quali questo avviene nella sua multiforme opera, insieme al reportage, alla fantascienza, all’ossessione per la prostituzione di Puttane per Gloria e Famiglia reale, all’analisi sociopolitica di Imperial e Povera gente, e alla ricostruzione della vita sotto totalitarismi mischiata a motivi cabalistici di Europe Central.

Vollmann non è uno scrittore alla moda: ha sempre lavorato a testa bassa, in silenzio, producendosi in decine di opere vaste, complesse ed estremamente eterogenee. Solo adesso, dopo trent’anni di carriera e diversi capolavori indiscutibili (I sette sogni, Europe Central), la critica americana comincia a riconoscerne il valore, mentre in Italia un suo nuovo libro non fa ancora il rumore che fanno invece le nuove uscite di Franzen, DeLillo, Safran Foer. Questo è dovuto senza dubbio alla frequenza con cui Vollmann pubblica i suoi libri, alla scelta peculiare degli argomenti (niente drammi d’interni all’ombra delle Torri Gemelle, niente meditazioni sulla fine del sogno americano), alla complessità dello stile. E tuttavia, rispetto ai freddi intellettualismi di questi autori e di tanti altri, ogni opera di Vollmann vibra di un’umanità, una compassione, una vastità e una profondità di interessi ogni volta inedite ed emozionanti.


vollmann

William T. Vollmann, Ultime storie e altre storie, Mondadori, Milano 2016, 756pp. 25,00€