Una conversazione su Dylan Dog, dal successo degli anni Novanta al nuovo corso di Roberto Recchioni. Per celebrare il numero del trentennale, Mater Dolorosa, ed essere preparati per il ritorno alla sceneggiatura di Tiziano Sclavi, con Dopo un lungo silenzio.
Massimo Cotugno: Quindi fanno trent’anni di Dylan.
Pazzesco. Non posso dire di averli vissuti proprio tutti. Mi sono perso qualche passaggio, ma Dylan non se la prende mai, sempre in giacca nera, camicia rossa a suonare male il suo clarinetto. Ricordo la prima volta che l’ho incrociato. Dylan Dog Speciale numero 1, Il club dell’orrore, poggiato sul cruscotto dell’auto di mio padre. La lettura fu scioccante. All’interno di una convenzionale cornice gotica – con tanto di castello e camino acceso – misteriosi ospiti raccontano a turno spaventose versioni del mito di Loch Ness. Avevo dieci anni e mi trovavo di fronte a donne seducenti che divorano i propri amanti, morti che tornano dal passato, in un incubo di scatole cinesi dove il mostro si trova nel fondo, dentro di noi, proiezione delle nostre paure e dei nostri desideri. Credo fu un bel modo per iniziare la conoscenza di Tiziano Sclavi. Tu, Michele, ricordi il primo incontro con Dylan?
Michele Turazzi: Ci stavo giusto pensando qualche giorno fa: ero in tram e – chissà perché – mi stavo sforzando di ricordare quale fosse stata la prima storia dylaniana che avessi mai letto. Non ci sono riuscito. Però mi ricordo molto bene il momento: era più o meno la metà degli anni Novanta – forse prima – ed ero un bambino di meno di dieci anni da solo in camera di mia sorella. Mi succedeva spesso, quando lei non c’era: mi infilavo nella stanza di quella che all’epoca era una matricola universitaria e iniziavo a sfogliare le sue raccolte di fumetti. Erano tantissimi, di tutti i tipi. Di solito si trattava di manga, roba che andava da Ranma 1/2 a City Hunter, da Rough a Lamù e che io avevo letto dall’inizio alla fine, non capendo la metà delle situazioni e la totalità dei doppi sensi. Qualche volta però c’erano questi volumetti sul comodino, avevano la costa nera con le scritte gialle. Ricordo distintamente la prima volta che ne sfogliai uno: quei chiaroscuri marcati, quella Londra fumosa e notturna, quel trentenne (quarantenne? Quanti anni ha Dylan?) romantico e disincantato. Mi colpì qualsiasi cosa. Ripensandoci ora, il fatto che in camera di una fanatica di anime ci fosse pure Dylan Dog certificava in maniera inequivocabile il successo del fumetto di Sclavi negli anni Novanta. Era un’acclamazione trasversale: non dovevi essere un appassionato di horror né un fanatico bonelliano, chiunque in quel periodo lo leggeva. Si parla di un milione di copie al mese nel periodo d’oro. Impressionante, vero? Qual era il suo segreto?
MT: Credo sia fisiologico. Ogni prodotto seriale ha bisogno di rinnovarsi nel tempo per rimanere fedele a se stesso e continuare a rispondere alle esigenze di un pubblico in cambiamento. La dirompente ventata di novità del primo Dylan Dog negli anni è venuta meno proprio perché si tratta di una serie che ha fatto scuola: se all’inizio sono fiorite soprattutto imitazioni di bassa qualità, nel tempo il modello è stato interiorizzato e sono nati fumetti che hanno ripreso i punti di forza di Dylan Dog alzando l’asticella. Nel frattempo il nostro indagatore dell’incubo, complice anche la progressiva separazione tra Sclavi e la sua creazione, si è fatto maniera. Ovvio, non sempre e non dappertutto, ma la sensazione che la parabola fosse inesorabilmente discendente era ben radicata nei lettori. C’era bisogno di un cambio di rotta.
MT: Prima di tutto un’ammissione: sono uno di quelli che ha ricominciato a comprare Dylan Dog ogni mese proprio quando è stato annunciato questo fantomatico “nuovo corso”, ossia un annetto prima di Spazio profondo. Da quel momento non ho più smesso. E in molti si sono comportati come me, l’esigenza di rinnovamento era diffusa tra i vecchi fan. Se a questo si aggiunge il fatto che la Bonelli si è mossa davvero bene a livello di marketing e di pianificazione (il cambiamento è stato presentato come una sorta di mutazione antropologica, tanto che è stata persino creata una serie riservata a coloro che del nuovo corso non ne volevano sapere niente, Dylan Dog – Old Boy) e che lo stesso Sclavi ha incoronato Recchioni come suo successore designato, si può dire che negli ultimi due anni Dylan Dog è tornato a essere Dylan Dog, inteso come fenomeno di costume capace di far parlare di sé, nel bene e nel male. E di questo non si può non dar merito a Recchioni. Trovo poi che siano state fatte alcune scelte molto forti sia a livello dei personaggi (una su tutte, Bloch finalmente in pensione) sia a livello di serialità (le singole storie vengono collegate in una vicenda più ampia che si sviluppa numero dopo numero, carattere che sarà sempre più marcato in futuro). Sono stati infine fatti avvicinare all’universo di Dylan Dog alcuni autori di qualità che, in alcuni casi, hanno portato uno sguardo da graphic novel a un fumetto da edicola. Insomma, nel complesso l’ho trovata una svolta salutare e positiva: ciò non toglie che quelle avventure oniriche e surreali che tanto avevano caratterizzato il Dylan Dog delle origini ormai sono andate perdute a vantaggio di una narrazione più tradizionale, più d’avventura, se vogliamo.
MT: Hai citato due degli albi che più ho apprezzato di questo ultimo periodo, entrambi però mi hanno lasciato una strana sensazione: come se le storie avessero avuto bisogno di ulteriore spazio per sviluppare il loro pieno potenziale, come se a questi nuovi autori il numero di pagine bonelliano andasse inequivocabilmente stretto. Invece, non posso fare a meno di provare un po’ di delusione pensando al numero del trentennale, Mater Dolorosa: le illustrazioni di Cavenago – magnifiche, ogni pagina un vero e proprio quadro – potevano e forse dovevano dar voce a una storia più sentita, incisiva e – perché no? –metafisica. E io, anche se non avrei voluto, chiuso il volume, sono tornato a pensare al caro, vecchio Johnny Freak.