Ladivine di Marie NDiaye è finalmente stato pubblicato in Italia nel settembre 2016 per i tipi di Giunti, tradotto da Antonella Conti. Giunti aveva già pubblicato gli altri romanzi dell’autrice editi in Francia da Gallimard, sempre con traduzione di Antonella Conti: Una stretta al cuore (Mon cœur à l’étroit), 2009 e Tre donne forti (Trois femmes puissantes), 2010. Nel frattempo, in Francia, a inizio ottobre, è uscito per Gallimard il nuovo romanzo dell’autrice, La Cheffe, roman d’une cuisinière, che sembra declinare un tema di tendenza in una riflessione meta-letteraria, che indaghi l’idea di successo e di soddisfazione di un pubblico.
I precedenti romanzi di Marie NDiaye, tutti editi da Minuit, le sue pièces teatrali e i suoi racconti per adulti e per bambini hanno avuto in Italia fortune alterne. Morellini editore ha pubblicato Rosie Carpe, nel 2005, e nel 2007 Fuori stagione (Un temps de saison), entrambi tradotti da Lucia Quaquarelli. Nel 1993 Marsilio aveva pubblicato il romanzo d’esordio dell’autrice, Il Pensiero dei sensi (Quant au riche avenir, trad. Susanna Spero). Le pièces Papà deve mangiare (Papa doit manger, trad. Graziano Benelli) et Niente di umano (Rien d’humain, trad. Ida Porfido) sono state edite rispettivamente nel 2007 e nel 2009 da Edizioni del Cardo e da Graphis, casa editrice universitaria barese. Hilda è stata messa in scena nel 2012 al teatro i di Milano, per la regia di Renzo Martinelli, con traduzione di Giulia Serafini. Infine l’editore Baldini Castoldi Dalai ha pubblicato nel 2005 la raccolta di racconti Tutti i miei amici (Tous mes amis, trad. Ombretta Marchetti); Mondadori ha invece inserito nel 2002 La Diavolessa (La Diablesse, trad. Francesca Lazzarato) nella collana “Junior”, dedicata ai bambini sotto gli otto anni.
Quasi tutti i testi citati sono fuori catalogo e romanzi capitali come En famille (1990) o La Sorcière (1996) restano non tradotti. La continuità con cui Giunti traduce e pubblica i romanzi editi da Gallimard è tuttavia di buon auspicio per una maggiore diffusione dell’opera di Marie NDiaye, tra i nomi più importanti della letteratura francese contemporanea. Accanto a lei vi sono gli ormai classici Pierre Michon e Annie Ernaux, dei quali sono stati finalmente tradotti in Italia i testi più importanti: Vite minuscole (Vies minuscules) del primo, appena uscito per Adelphi con traduzione di Lorenzo Carra, ma pubblicato in Francia nel 1984; Il posto (La Place) della seconda, pubblicato nel 2014 da L’Orma, tradotto da Lorenzo Flabbi. Altri autori emergenti, sempre più riconosciuti anche nel panorama editoriale italiano, sono Laurent Mauvignier (Intorno al mondo, Feltrinelli, 2016, trad. Yasmina Mélaouah), Mathias Énard (Bussola, E/O, 2016, trad. Yasmina Mélaouah), e Maylis de Kerangal (Riparare i viventi, Feltrinelli, 2015, trad. Maria Baiocchi e Alessia Piovanello).
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Marie NDiaye è nata in Francia nel 1967, da madre francese e padre senegalese. Abbandonata dal padre quando aveva solo un anno, è cresciuta senza che le fosse trasmessa una cultura africana, ma portando sul proprio corpo e nel proprio cognome le tracce di quell’eredità mancata. Scoperta da Jerôme Lindon, il direttore delle Éditions de Minuit, la casa editrice del Nouveau Roman, ha pubblicato il primo romanzo a soli 17 anni (Quant au riche avenir, 1985, dal titolo quanto mai promettente). Con il quarto romanzo, En famille, ha mostrato di essere una grande autrice e con Rosie Carpe (prix Fémina nel 2001) la sua carriera letteraria ha cambiato strada. Ha iniziato a dedicarsi a generi diversi, come la narrativa per l’infanzia o il teatro: ha ormai sette pièces al suo attivo ed è l’unica autrice vivente nel repertorio della Comédie Française con Papa doit manger (2003). Nel 2007 (con Mon cœur à l’étroit) ha iniziato a pubblicare con Gallimard, sancendo così la propria legittimazione come autrice istituzionale e non più “di nicchia”. La consacrazione è arrivata nel 2009 con Trois femmes puissantes, vincitore del Prix Goncourt (750.000 copie vendute in Francia). Si tratta del primo libro che l’autrice ambienta chiaramente in Africa e viene affrontato, da una prospettiva inattesa, anche il tema dei migranti: Marie NDiaye coniuga così magistralmente interrogativi identitari in parte autobiografici, un engagement declinato in chiave contemporanea e una costante fascinazione per l’inquietante e il sovrannaturale.
Ladivine, pubblicato sempre da Gallimard nel febbraio 2013, non tradisce le aspettative di un’attesa durata più di tre anni. Anzi, si potrebbe dire che l’autrice di opera in opera sia in grado di fare un passo ulteriore nella conquista di una cifra stilistica personale. Abbandonati gli eccessivi formalismi degli esordi, Marie NDiaye incanta per la sintassi sinuosa, dalla costruzione minuziosamente cartesiana, dove all’eco proustiana si sovrappone una musicalità cantilenante. L’autrice ritorna continuamente sui temi a lei cari, ma al contempo è come se ogni nuovo romanzo, ogni nuova pièce teatrale gettassero una luce sempre nuova su tutta la produzione precedente.
Ladivine mette in scena tre generazioni di donne. Sembra un ritorno del modulo scelto per Trois femmes puissantes, ma se in quel caso si trattava di tre storie tenute insieme da un filo sottilissimo, nel nuovo romanzo le tre donne forniscono tre punti di vista diversi su vicende strettamente connesse: la narrazione fa immergere il lettore nella loro coscienza attraverso una focalizzazione interna fissa che non lascia scampo. Siamo costretti a confrontarci con l’impossibilità di amare e di comunicare, soprattutto all’interno dei nuclei familiari, con la muta violenza del non detto. L’autrice affronta per la prima volta in maniera così diretta il problema della costruzione di un’identità meticcia, la difficoltà di accettare l’eredità lasciata dai genitori. Così Malinka allontana dalla sua vita la madre Ladivine, che pure la ama di un amore incondizionato, cambia nome, diventando Clarisse, e fa visita alla “servante” (la serva, come la definisce quasi sempre) solo una volta al mese. Clarisse/Malinka chiama tuttavia la sua unica figlia Ladivine, quasi a voler tramandare un racconto che pure non viene mai pronunciato. Questo segreto peserà sulla vita di tutti i personaggi del romanzo. Innanzitutto peserà su Clarisse, che, scissa tra due nomi, due identità, due vite, finirà per non essere nulla, ennesima figura nell’opera di Marie NDiaye dell’impossibilità di vivere entre-deux, in un intermedio di per sé indefinibile. Anche Richard Rivière, il marito di Clarisse, e le due Ladivine devono confrontarsi con la difficoltà di vivere accanto a una persona inconoscibile, poiché sfugge ad ogni confronto, vittima del suo senso di colpa senza rimedio. La giovane Ladivine si spingerà fino a un viaggio iniziatico in un paese esotico, un paese che potrebbe sembrare africano, in cui si verificano fatti inquietanti e apparentemente inspiegabili, che le cambieranno per sempre la vita. Ricerca identitaria, scontro di culture, metamorfosi: tutto avviene in un’atmosfera misteriosa, nella quale il lettore fatica a trovare punti di riferimento.
Non è difficile leggere in numerose scelte narrative il peso dell’esperienza biografica dell’autrice: l’anziana Ladivine è una «negra» (p. 45) venuta da un paese lontano, Malinka, ha ereditato dal padre scomparso pelle e capelli miracolosamente chiari (e forse non è un caso la scelta del nome Clarisse). Richard Rivière spingerà la figlia Ladivine a fare un viaggio che potrebbe svelare il segreto di Clarisse, una ricerca delle origini. Marie NDiaye sembra sfruttare il dato autobiografico per mettere di fronte il lettore ai propri pregiudizi culturali, che lo portano a pensare ad un’ambientazione africana mai esplicitata. Tuttavia, l’autrice, sempre più sicura di sé e affermata nel panorama letterario francese contemporaneo, non ha timore di mettere in scena nelle sue opere interrogativi che partono da esperienze personali. La posizione di Marie NDiye nel campo letterario è infatti ambigua e molti critici la considerano tuttora una scrittrice francofona, cioè un’africana di espressione francese, nonostante sia cresciuta in Francia e si sia formata in un contesto culturale pienamente francese. Se agli inizi l’autrice cercava di rivendicare la propria legittima collocazione nel panorama letterario, ora non ha più nulla da dimostrare e sfrutta a proprio favore la complessità della sua storia personale.
Tuttavia, non sono tanto la pelle nera e l’origine senegalese a fare di Marie NDiaye una scrittrice originale rispetto ai suoi connazionali e ad avvicinare le sue opere alla produzione francofona dell’Africa subsahariana, quanto la scelta di inserire le sue storie in un quadro realistico che subito vacilla, per fare spazio all’inquietante, all’onirico. Il fraseggio costruito in modo razionale, geometrico, sembra quasi una trappola, attraverso la quale penetrare in un mondo dove è possibile la metamorfosi e la reincarnazione. Si tratta di piccole fessure che si aprono nella realtà per restituircene la vera immagine. È così che possono essere trattati problemi come il sovra-indebitamento dovuto agli acquisti a rate o la violenza domestica senza scadere nel triviale. L’immaginario e il sogno aprono prospettive nuove sul mondo che ci circonda. Marie NDiaye sembra ricordarci che il potere ancestrale della narrativa è il mezzo migliore per dare forma anche al nostro tempo, per creare una letteratura al contempo intima e engagée.