A ognuno di noi è capitato, almeno una volta nella vita, di assistere a una partita di calcio davanti a uno dei maxi schermi di cui si costellano le città italiane in occasione dei campionati europei o dei mondiali; questo perché il pubblico della nazionale è tanto eterogeneo da sovrapporsi alla quasi complessiva popolazione. Potrete non seguire il calcio, sapere a malapena dove si trova lo stadio della vostra città e soltanto perché dovete evitarlo dai vostri percorsi nei giorni della partita. Non importa. Per “tenere all’Italia” basta essere italiani, e lo si vede dalle piazze che in queste situazioni si gremiscono di spettatori di ogni età, religione, ruolo sociale. È la tifoseria di un popolo verso la squadra che lo rappresenta e che lo fa sentire unito in quella che può definirsi senza troppi convenevoli come una lotta alla supremazia; anche se soltanto agonistica, beninteso. Per i novanta minuti di una partita importante in cui giochi la nazionale, i maxischermi e le televisioni rapiscono gli occhi di un’intera popolazione, proiettando l’immagine di una fisicità quasi inumana: quella dei corpi dei giocatori, che appaiono immensi, vigorosi, statuari. Nessuno di noi, pubblico, può competere con la loro bellezza; perché a giocare sono i nostri campioni, i “migliori tra noi”, scelti per farci onore su quel campo da gioco che ha tanto in comune con un campo di battaglia. Sono gli eroi dalla maglia azzurra, protagonisti di una narrazione epica e artefici di un sentimento di fierezza nazionale che soltanto il calcio è in grado di regalare.
Rivedendosi in tali situazioni, e considerando fino a fondo quanto queste siano importanti per la nostra formazione identitaria, è possibile comprendere la serietà della domanda apparentemente assurda su cui si fonda il nuovo libro di Gigi Riva, caporedattore centrale di «l’Espresso», L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra, pubblicato da Sellerio nel maggio di quest’anno: che cosa sarebbe accaduto se Faruk Hadžibegić, capitano della nazionale jugoslava, avesse segnato il rigore della vittoria, l’ultimo rigore della partita tenutasi il 30 giugno del 1990 a Firenze contro l’Argentina di Maradona? Per la prima volta nella sua storia, la Jugoslavia era riuscita ad arrivare ai quarti di finale dei mondiali. Evento unico che non ha più potuto ripetersi, poiché entro pochi anni la nazionale jugoslava sparì dalla storia del calcio, così come lo stato cui faceva riferimento fu cancellato dagli atlanti geografici. Che cosa sarebbe accaduto se i guantoni di Sergio Goycochea avessero mancato il pallone di Faruk, tirato all’angolo destro della porta argentina? È possibile che l’esito vittorioso di una partita fosse in grado di risvegliare in un popolo un senso patrio e un orgoglio identitario tali da placare divisioni interne giunte al loro massimo grado di tensione? Difficile sarebbe crederlo, per noi. Ma non per le persone che Faruk incontra durante il suo viaggio nei Balcani, 25 anni dopo la partita di Firenze, e che palesano, oltre allo stupore nel trovarsi di fronte a una figura mitica, tutto il rammarico per una possibilità mancata. Perché, se l’amore e l’orgoglio verso la propria nazionale sono vissuti con ironia, mantenendosi sempre entro i confini di un ambito festivo, di gioco, da parte di una popolazione che non vede messa in discussione la propria appartenenza politico-territoriale, lo stesso non può essere per uno stato dilaniato dalle spinte indipendentiste delle sei Repubbliche che lo costituiscono. La squadra nazionale assume allora un ruolo politico e di sfida, come un alzabandiera che dovrebbe agire da monito a tutti coloro che intendano distruggere, insieme a uno stato, la loro stessa identità. Nel 1990, il terremoto che avrebbe distrutto la Jugoslavia faceva sentire le sue prime scosse, tali da indurre una popolazione sconvolta a sovraccaricare ogni evento di un valore esiziale. Così un rigore sbagliato si fa metafora di una morte annunciata, entra a far parte di una narrazione popolare che i padri raccontano ai figli, instaurando una memoria collettiva che oltrepassa i confini creati dalla guerra. Faruk Hadžibegić è un eroe epico, dunque, e tragico, i cui atti si fanno tramite del destino del proprio Paese. O forse è solo la sfortunata e inconsapevole pedina di divinità minori, che hanno utilizzato il calcio come strumento per ottenere consenso e potere, scopi affatto terreni. Di tutti gli sport, il calcio è quello con maggiore popolarità, ed è per questo il veicolo che più facilmente può essere strumentalizzato a fini propagandistici:
Basti pensare all’uso che Mussolini fece dei trionfi del 1934 e 1938, o a come i generali argentini sfruttarono il Mondiale in casa del 1978, durante la dittatura. Oppure ai giorni nostri, a come lo Stato Islamico abbia deciso di colpire lo Stadio di Francia durante una partita per amplificare il suo messaggio di terrore. Ma si potrebbe sostenere che in nessun luogo come nella ex Jugoslavia il legame tra politica e sport sia stato così stretto e perverso.
Le partite giocate sul campo furono specchio della situazione politica conflittuale. E bisogna ricordare che molti degli uomini assoldati dagli eserciti che combatterono in una delle guerre civili più sanguinose e cruente della storia provenivano dalle tifoserie delle squadre rappresentative delle diverse Repubbliche. Questo è il motivo per cui Gigi Riva, che inviato speciale per Il Giorno ha riportato la cronaca delle guerre balcaniche negli anni Novanta, ha deciso di scrivere un libro che mettesse in parallelo, fino poi a congiungerle in una sola narrazione, la dissoluzione della squadra jugoslava e quella della sua nazione. Per farlo, Riva si avvale delle storie individuali di personalità che si pongono come punti di contatto tra i due piani del racconto. Una di queste è quella di Radovan Karadžić, assunto in qualità di psichiatra dal club sportivo FK Sarajevo negli anni in cui Faruk è parte della squadra. «Si chiama Radovan Karadžić, il suo nome incuterà terrore quando, diventato leader dei serbi di Bosnia, ordinerà l’assedio di Sarajevo più molti eccidi, Srebrenica compresa, e il 24 marzo del 2016 sarà condannato a 40 anni per genocidio dal tribunale dell’Aja». Un’altra è quella di Franjo Tudjman, futuro primo presidente della Croazia indipendente, morto prima di essere riconosciuto colpevole all’Aja per crimini di guerra; fu presidente per due anni del Partizan Belgrado. Punto focale del legame tra calcio e politica è poi la figura di Željko Ražnatović, più noto come «la tigre Arkan», agente segreto della polizia jugoslava e leader della tifoseria della Stella Rossa di Belgrado su incarico di Slobodan Milošević, al fine di trasformare la fascia sediziosa degli hooligans in una banda armata sottoposta al suo comando. Riva lo presenta per la prima volta nella cronaca della partita tra la Stella Rossa Belgrado e la Dinamo Zagabria, tenutasi nello stadio dell’attuale capitale croata il 13 maggio 1990, oggi considerata come il prodromo dell’imminente conflitto jugoslavo. Non furono le due squadre a fronteggiarsi, ma le tifoserie, con una furia che non aveva certo nulla a che vedere con la passione calcistica.
I veri protagonisti del romanzo sono però i giocatori che indossarono la maglia della nazionale in quegli anni, trovatisi a dover assumere un ruolo politico insostenibile per le loro possibilità: «le spalle larghe forgiate dall’allenamento, dalla fatica e dalla responsabilità, reggono il proprio peso, non quello di una nazione intera». Alla loro guida l’allenatore Ivica Osim, di Sarajevo come Faruk, detto l’Orso e il Professore, che ha difeso strenuamente la propria squadra, scegliendone i componenti con perizia matematica per non provocare alcun pretesto per facili conflitti. È nel suo sguardo che l’autore si riconosce, negli occhi di un uomo che credeva che la Jugoslavia fosse «la soluzione, non il problema».
Calcio, guerra, vite di uomini, vita di uno stato si intrecciano in una narrazione che è allo stesso tempo romanzo e indagine storica, capace di problematizzare il passato e renderlo attuale. Con la dissoluzione della Jugoslavia si chiude il Novecento, lasciando una ferita aperta sul secolo in cui viviamo, caratterizzato da un intensificarsi dei nazionalismi e da uno scontro etnico e culturale giunto ai suoi massimi esiti. A tale ineluttabilità di analisi Riva contrappone l’intelligenza umana, e la sua capacità creativa, attraverso il personaggio dell’Orso. Finché ha potuto Osim ha resistito allo sfacelo, per amore di quel sogno che rappresentavano i mondiali e per quel suo senso forte di identità jugoslava destinata a scomparire entro pochi anni. Osim, che ai calci di rigore della partita contro l’Argentina decise di lasciare il campo per ritirarsi negli spogliatoi, continua a pensare a quella partita, opponendo alla fatalità riconosciuta al rigore mancato, la forza dell’immaginazione e della speranza. Riva non crede nella predestinazione, e chiede al lettore di fare altrettanto, in nome di un futuro che riesca a distogliersi dai vortici dell’odio.
Gigi Riva, L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra, Sellerio, Palermo 2016, 192 pp. 15€