Se il mondo assomigliasse a un’espressione verbale sarebbe una frase lunga, articolata, ipotattica, apparentemente dispersiva, ma al fine compiuta e coerente. Una frase infinita, forse, ma che annoda piccoli nuclei di concentrazione semantica che permettono al lettore di fare una pausa, riprendere il fiato e poi immergersi nuovamente nel flusso del discorso. I più importanti romanzieri del Novecento hanno provato a mettersi su questa strada, quella del flusso continuo, di una verbalità inesausta, continuamente rilanciata, eppure sempre un passo indietro rispetto allo scorrere del tempo e del mondo. Il flusso di coscienza di Joyce, la scomposizione della memoria di Proust, le vertiginose impalcature narrative di Woolf, l’anatomia degli istanti inseguita da Faulkner. Scrittori che hanno messo alla prova la lingua per provare a costruire artifici stilistici che fossero della stessa grana del reale che volevano descrivere e raccontare. Scrittori che avevano un’idea del mondo e che utilizzavano lo stile come primo sintomo di quella loro visione.
La metafora verbale più adatta per definire il modo di vedere il mondo degli scrittori di oggi, invece, è l’elenco: un catalogo più o meno ampio, un regesto potenzialmente infinito di immagini, situazioni e caratteri che simula la complessità del mondo, riproducendone di fatto il disordine. Un espediente efficace, che solletica delicatamente la curiosità del lettore – subito mosso alla caccia del dettaglio da riconoscere e condividere –, nascondendogli la verità ultima che si cela dietro questo artificio retorico, ovvero la mancanza di un sistema entro cui organizzare gli elementi. La realtà è uno sconfinato cesto di mattoncini che l’architetto-scrittore non riesce a comporre in un edificio stabile e si accontenta così di impilarli in spettacolari serie colorate.
Maestro indiscusso di questo modo della scrittura contemporanea è Jonathan Safran Foer, ed Eccomi, il suo terzo romanzo uscito un paio di mesi fa in Italia per Guanda, ne è un esempio paradigmatico.
«Jacob e Julia non erano mai stati di quelli che si oppongono per principio alle convenzioni, ma non si erano neppure mai immaginati di diventare così convenzionali: avevano preso una seconda macchina (e l’assicurazione della seconda macchina); si erano iscritti a una palestra con un’offerta di corsi di venti pagine; avevano smesso di fare la dichiarazione dei redditi congiunta; ogni tanto avevano mandato indietro una bottiglia di vino; avevano comprato una casa con i doppi lavandini (e l’assicurazione sulla casa); avevano raddoppiato saponi e dentifrici; si erano fatti costruire uno steccato di tek per i bidoni della spazzatura; avevano sostituito la cucina con una più bella; avevano fatto un figlio (e avevano fatto l’assicurazione sulla vita); avevano ordinato vitamine dalla California e materassi dalla Svezia; avevano comprato vestitini bio il cui prezzo, diviso per il numero di volte in cui erano stati indossati, in pratica rendeva necessario fare un altro figlio per ammortizzarli» (49).
Elementi disparati, accostati dall’arguzia dell’autore, finiscono per comporre un affresco sociale e sentimentale che, a uno sguardo più attento, ha piuttosto le fattezze di un patchwork. Eccomi racconta la storia di una crisi famigliare: Jacob e Julia pensano alla separazione perché lei ha scoperto un cellulare che lui usa per scambiare messaggi piccanti con una collega. Intorno a loro, però, la situazione non consente di prendere decisioni rapide e drastiche: il matrimonio tra Jacob e Julia è stato cementato da tre figli che entrambi amano; anche loro due, in realtà, continuano ad amarsi, anche se la passione si è raffreddata nel corso degli anni, sommersa dalle abitudini e dalle cose non dette. Incombe poi il Bar Mitzvah di Sam, il figlio più grande, e il rito di passaggio viene messo in dubbio da una reazione razzista alla quale il ragazzo si è abbandonato e che ha mal disposto il rabbino.
Non serve dire, a questo punto, che i Bloch sono una famiglia ebrea che, nei sobborghi di Washington, fa i conti con un senso di appartenenza che si fa più severo e rigido a mano a mano che vengono meno le motivazioni alla base dell’identità religiosa. Infatti, nonostante il padre Irv sia un integralista sionista, e nonostante il venerato nonno Isaac sia un sopravvissuto alla Shoah, Jacob ha perso lo slancio della fede e cerca nell’apparenza dei riti e degli usi della tradizione ebraica le certezze che né la religione né l’amore riescono più a dargli.
Sono queste le premesse all’esplosione che dà avvio alla narrazione e che legittima il narratore nel suo instancabile lavoro di ricognizione dei dati, dei momenti, dei sentimenti che provano a colmare il vuoto di una struttura narrativa sostanzialmente statica. Diversamente dai suoi precedenti romanzi, infatti, Safran Foer abbandona il cronotopo del viaggio e orienta l’impulso della ricerca verso un’attività di carotaggio sentimentale che coinvolge i vari membri della famiglia Bloch. Ai tanti elenchi che con cui il narratore tenta di dilatare, nello spazio e nel tempo, la portata del proprio sguardo, si affiancano inesauribili dialoghi, in cui gli adulti, Jacob, Julia, ma anche Irv o il cugino Tamir (arrivato da Israele proprio mentre il mondo viene sconvolto da un’imprevedibile catastrofe), sembrano condizionati, nel loro modo di parlare, dall’infantile forma mentis dei tre giovani Bloch, Sam, Max e Benjy. La candida ingenuità dei piccoli si sovrappone all’ipocrisia con cui i grandi cercano di proteggere se stessi e gli altri: una retorica dell’eccentrico può così prendere il sopravvento, giustificata da un’apparente profondità di scavo psicologico. La battuta spiazzante, l’irruzione improvvisa del gioco linguistico arguto con cui i grandi scimmiottano la sintassi fantastica dei più piccoli non fanno che nascondere le insicurezze che li assillano:
«Io mi sento benissimo», disse Tamir.
«Fondamentalmente, radicalmente… bene».
«Conosco quella sensazione».
«Ma il fatto è che la mia vita non va bene».
«Sì».
«Sì, lo sai? Sì, neanche la tua va bene?»
«Sì».
«L’infanzia va bene» disse Jacob, «il resto è tutto un trascinare le cose. E sei già fortunato se te ne frega qualcosa, di quelle cose. Ma sono differenze di virgole».
«Ma quelle virgole sono importanti».
«Dici?»
«Se una cosa è importante, è tutto importante».
«Sei bravissimo nella parte del vecchio saggio».
«I noodle al maiale sono importanti. Le battutine sconce sono importanti. I materassi rigidi e le lenzuola morbide sono importanti. Il Boss è importante» (475).
Dialogismo infantilizzato ed euforia elencatoria costituiscono i due pilastri di un’architettura romanzesca che vive di brevi illuminazioni, brani isolati in cui Safran Foer ritrova la misura di una prosa che riesce a non trasformare un’indubbia capacità di studio dell’io in ridondante e autocompiaciuta elucubrazione su ciò che è stato, ciò che sarebbe potuto essere e ciò che sarebbe dovuto essere. Jacob e Julia, i due protagonisti, pur con i rispettivi caratteri e contrapposte esigenze, sono facce di una stessa medaglia: quella di un’agiata borghesia ebraica immersa in una crisi di coscienza, che dimentica la propria vocazione a esserci, a farsi trovare presente di fronte alle chiamate della vita (si legga la citazione biblica del titolo) e che crede di poter sostituire questa assenza con gli oggetti, i gesti e le abitudini, plateali dichiarazioni d’intenti. Ed è grave questa crisi, ma riguarda un microcosmo, il sistema minimo di una comunità sempre più chiusa in se stessa, nelle certezze indiscusse e nelle fragilità ignorate. E invece Safran Foer pretende di estenderne i caratteri, le ambizioni e i fallimenti all’intero cosmo americano e – perché no – tout court occidentale. Se prima c’erano la ricerca delle origini dopo la diaspora ebraica (Ogni cosa è illuminata) o il tentativo di spiegarsi un trauma collettivo come l’attentato alle Twin Towers (Molto forte, incredibilmente vicino), ora solo un’improbabile trovata fantastorica tenta di dare portata universale a una riflessione che in realtà ha il fiato corto. L’indagine sui legami famigliari, la meditazione oscillante su sacralità e insostenibilità dell’essere padri e madri – costanti della narrativa di Safran Foer – non trovano più l’ancoraggio forte che i primi libri avevano. Risulta così sproporzionato il modo in cui a più riprese il narratore e i personaggi stessi insistono su un senso di predestinazione che giustificherebbe l’urgenza e la dimensione assoluta delle domande che assillano l’individuo, la sua famiglia, la sua comunità.
«Perché pensi che ti abbia colpito immaginare i tuoi pro-pro-pro-pro-pro-pro-pro-pronipoti respirare il tuo respiro?»
Jacob esalò un respiro che sarebbe stato inalato dall’ultimo della sua stirpe.
«Provaci disse Tamir».
«Credo» – altro respiro – «credo che mi sia stata inculcata l’idea che non sono degno di tutto quello che è venuto prima di me. Ma nessuno mi ha mai preparato alla consapevolezza di non essere degno neppure di tutto quello che verrà dopo».
Tamir prese la mela dal tavolo, la tenne in modo che la luce del lampadario cadesse dritta attraverso il buco al centro e disse: «Voglio scoparmi questa mela».
«Cosa?»
«Ma il mio cazzo è troppo grosso» disse. Poi, cercando di spingerci dentro l’indice dalle nocche pelose: «Non riesco neanche a farle un ditalino».
«Mettila giù, Tamir».
«È la Mela della Verità» disse Tamir, ignorando Jacob. «E io voglio scoparmela» (479).
Dopo dieci anni di silenzio Jonathan Safran Foer si presenta con un romanzo che doveva convincere definitivamente delle sue eccezionali doti di inventore di storie e costruttore di personaggi e che invece finisce per confermare i dubbi dei più scettici che già in Molto forte incredibilmente vicino ne avevano accusato la “furbizia”. Lo scenario da grande romanzo americano – affresco famigliare, prospettiva multipla, attualità dei temi – si incaglia subito in una prosa infantilizzata che stride con l’esibita serietà degli argomenti trattati. Il divorzio, la scelta di andare in guerra, la decisione di confessare ai genitori i propri sentimenti: ogni cosa viene presa nel vortice di una scrittura che al tempo stesso smorza ed eleva, come se alcuni argomenti fossero talmente gravi da non poter esser affrontati se non con lo sguardo ingenuo di un’umanità forzatamente bambina. L’esito è però l’ambiguità di fondo della morale dell’intero romanzo: chi narra non lascia intendere se la rappresentazione delle contraddizioni della famiglia Bloch sia l’oggetto di una critica radicale da parte dell’autore o l’esito involontario di una voce che vive la stessa crisi di identità di cui cerca di parlare.
Ancora una volta si potrebbe ricollegare tutto a quella passione per gli elenchi, facile scorciatoia che permette di comprendere tutto un mondo nell’arco di un capoverso, senza però decifrare i rapporti, le motivazioni e le interpretazioni che rendono tanto affascinante e complessa la realtà in cui tutti siamo immersi.
Jonathan Safran Foer, Eccomi, Guanda, Parma 2016, 666 pp. 22€