10 e 11 agosto 1996, Knebworth Park: in 250 mila si riversano nell’Hertfordshire per assistere ai due storici concerti degli Oasis (le richieste di biglietti avevano superato quota 2,5 milioni, un numero pari al 5% della popolazione britannica). “It was a great time to be alive”, sussurra la voce fuori campo di Noel Gallagher nel recente docu-film Supersonic. È l’apogeo del brit pop e, per propagazione, del rinascimento culturale del Regno Unito dopo gli anni plumbei del thatcherismo. Il 23 febbraio di quell’irripetibile 1996 aveva visto la luce Trainspotting di Danny Boyle, trasposizione sul grande schermo di quel microcosmo di junkies edimburghesi plasmato dall’irriverente penna di Irvine Welsh. Vent’anni dopo, le peripezie di Renton, Sick Boy, Begbie e compagnia cantante stanno per tornare al cinema; T2: Trainspotting, tratto da Porno dello stesso Welsh, approderà nelle sale italiane il prossimo 2 marzo 2017 per il tripudio della foltissima schiera di adepti. Perché il film di Boyle è stato e continua a essere più di ogni altra cosa un fenomeno di culto capace di accattivarsi l’adorazione del pubblico, distinguendosi come uno degli ultimi grandi ritratti generazionali su celluloide. Un film in stretto accento scozzese, girato in appena due mesi causa budget risicato e avente come protagonisti un branco d’incorreggibili tossici diventa un caso cinematografico planetario: com’è possibile? La prima ragione è anche la più immediata: uscì al posto giusto nel momento giusto, in pieno fermento culturale da Cool Britannia.
Il mio problema è questo, ogni volta che quasi mi sembra di farcela, o quando già ce l’ho fatta a ottenere una cosa che pensavo di volere, una ragazza, una casa, un lavoro, esami, soldi o roba del genere, poi mi sembra una tale perdita di tempo, una tale cazzata che non me ne fotte più un cazzo. Con la droga è diverso, però. Uno non può girarsi e andarsene. Non te lo lascia fare, quella, non ti molla. Provate a gestirsi un problema di droga è il massimo del casino. Cazzo però, è anche una cosa stupenda.
L’impatto di Trainspotting sull’estabilishment è paragonabile a un pugno nella bocca dello stomaco: nessuno aveva mai raccontato la droga su grande schermo in quel modo, senza edulcorare la pillola né sorvolare sulle possibili conseguenze del suo abuso ma al contempo mostrando quanto potesse essere eccitante.
“La gente dimentica quanto sia piacevole, sennò noi non lo faremmo. In fondo non siamo mica stupidi! Almeno non fino a questo punto, e che cazzo! Prendete l’orgasmo più forte che avete mai provato. Moltiplicatelo per mille. Neanche allora ci siete vicini”, parola di Ewan McGregor/Mark Renton. Siamo agli antipodi rispetto al glaciale cinema-verità di Christiane F. e il suo Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino: i morti viventi intenti a vagare per il quartiere berlinese di Gropiusstadt alla ricerca di una “spada” da iniettarsi nelle vene non hanno nulla a che vedere con gli sboccati perditempo provenienti dal distretto di Leith, nord di Edimburgo. L’incredibile riscontro al botteghino – incasso globale di circa 72 milioni di dollari a fronte di un budget di 1,5 milioni di sterline – ha certificato la bontà dell’anticonvenzionale approccio del film nei confronti di una tematica così scabrosa, con buona pace del coro di detrattori che dal primo istante lo derubricarono ad apologia del consumo di droghe pesanti.
It took an hour to pry it off and get inside/ It smelt as if someone had died/The living room was full of flies/The kitchen sink was blocked/The bathroom sink not there at all/Oh, it’s a mess alright/Yes, it’s Mile End!
Mile End è il titolo di una canzone dei Pulp incentrata sulle disavventure di uno sgangherato gruppo di abusivi di un decadente condomino ubicato nell’East End di Londra, ma il mood del pezzo è perfetto per accompagnare le vicissitudini di Renton, Begbie, Spud e Sick Boy. Se Trainspotting è diventato un cult mondiale una consistente fetta del merito va ascritta alla memorabile colonna sonora, irresistibile miscuglio del brit pop imperante a metà anni Novanta (Blur, Pulp, Elastica, Sleeper), di post punk (Brian Eno, New Order), del sacro triangolo del glam rock Lou Reed/Iggy Pop/David Bowie (Golden Years del Duca Bianco fu inclusa nel secondo volume della colonna sonora malgrado l’assenza nel final cut) e di musica elettronica che avrebbe ridefinito di lì a poco i canoni del genere (riuscireste a immaginare Trainspotting senza il martellante sottofondo di Born Slippy degli Underworld?). Canzoni da nightclub si alternano a brani di musica classica in un caleidoscopio di suoni utile a far rivivere il surrealismo delle pagine di Irvine Welsh: le note dell’Habanera – tratta dalla celebre opera della Carmen di Georges Bizet – contribuiscono a rendere iconica la scena in cui Renton s’immerge nel “peggior water di Scozia” per recuperare le sue supposte a base di oppio. “C’è la solita questione del capire se sia la musica a rendere grande un film o il film a esaltare un pezzo. Ovviamente si tratta di entrambe le cose”: la condivisibile teoria del produttore Andrew Macdonald ben racchiude l’interconnessione tra film e colonna sonora stracult.
Nonostante fosse un prodotto britannico a diciotto carati rivolto a un pubblico prettamente britannico Trainspotting è riuscito a far breccia nell’immaginario collettivo di un pubblico trasversale. I protagonisti del film di Danny Boyle – al netto del loro modus vivendi ai margini della società – sono perfettamente stereotipati , tanto che per lo spettatore è quasi inevitabile scorgere qualche figura familiare: dall’amico logorroico abbonato ai turpiloqui, a quello che alza sistematicamente il gomito, quello più riflessivo, l’attaccabrighe, il più impacciato al fanatico degli sport. I déjà-vu sono all’ordine del giorno perché nell’opera di Boyle amicizia, spirito di gruppo e cameratismo occupano un ruolo centrale. Sono rapporti profondi, complessi e cangianti quelli vissuti e raccontati in prima persona dal protagonista della storia Mark Renton; rapporti in cui immedesimarsi non è affatto impossibile. Come scrive Mauro Giorgi nel suo saggio sui Cult Movie “quella di un immediato riconoscimento di sé nel film è la via più semplice e diretta che può portare alla trasformazione in culto di un film da parte della gioventù o di un qualsiasi gruppo sociale”.
Scegliete Facebook, Twitter, Instagram e sperate che a qualcuno, da qualche parte, importi.
Sono trascorsi vent’anni dalla prima volta ma oggi come allora la saga di Trainspotting è radicata nel suo tempo: il “maxi televisore del cazzo” ha ceduto il passo ai social network, il brit pop dei Pulp all’indie rock dei Wolf Alice, ma la peculiarità dei film di Danny Boyle rimane quella di strizzare l’occhio alle tendenze contemporanee. La vera novità è che Sick Boy & Co. dovrebbero aver riposto le cattive abitudini in soffitta: i ribelli senza una causa (“chi ha bisogno di una causa quando c’è l’eroina?” si sarebbe chiesto in tempi non sospetti il buon Renton) si sono riciclati in aspiranti imprenditori nel settore della pornografia. Sarà vera redenzione oppure gli amabili cialtroni della combriccola di Edimburgo percorreranno ancora una volta la wild side trascinando nella loro discesa agli inferi il nutrito esercito di aficionados? Al prossimo 2 marzo l’ardua sentenza, nell’attesa il condizionale è d’obbligo.
Take a deep breath. You’re an addict, so be addicted. Just be addicted to something else. Choose the one you love. Choose your future. Choose life.