Nella canicola autostradale i corpi perdono consistenza e sembrano liquefarsi. Sotto questa azione termodinamica i corpi del romanzo La metà del diavolo di Joseph Incardona (NN Editore, 2016, traduzione di Claudine Turla) sussultano, come per battere un ultimo colpo, per resistere all’ansia dell’evaporazione.
Inizia con la messinscena di un quasi-suicidio, il romanzo: è Pierre Castan il protagonista di questo incipit già mortifero come una «mosca verde», una persona che «ha studiato, parla diverse lingue, è un uomo inserito nella società», padre di una figlia rapita sull’autostrada e mai ritrovata, uomo ormai dedicato alla vendetta, alla grande riparazione del lutto. Pierre sosta in auto, quasi disciolto dal calore: la sua esperienza teorica sa come il suo corpo morirà; conosce gli stadi della decadenza. Però non muore. Mi sembra una perfetta metafora per descrivere l’umanità che si affaccia dai cartelli di questo detour transalpino, il cui titolo originale mima infatti la segnaletica dei lavori, annunciando ai viaggiatori: «Ci sono uomini dietro i pannelli».
Ci sono corpi sulla strada. Di chi ci muore, di chi la batte in cerca di altri corpi, di vittime sacrificali, sacrifici d’amore s’intende. Pierre, Pascal, il sordomuto che ha tatuata una «cerniera lampo lungo il solco della cicatrice», così «il Male può restare nella sua testa a lungo, finché non chiede di uscire si agita e lo incalza»; Julie Martinez, la poliziotta chiamata a risolvere anche il terzo caso di scomparsa. Un’altra ragazzina è stata rapita dal mostro che terrorizza il circuito d’asfalto ed è Marie Mercier, figlia di genitori distratti o soltanto troppo infuriati reciprocamente per accorgersi di altro al di fuori della propria frustrazione e rabbia. Incapaci di vedere oltre il loro rancore.
Ma il diorama di personaggi è ampio, come sono molte e differenti le apparizioni sulle strade. Tutti hanno voce, tutti occupano una tessera di questa cronologia serratissima: la narrazione infatti procede come un puzzle, a (s)brani, ciascuno di poche pagine, dedicato alla linea narrativa di un personaggio. Il ritmo è indiavolato, con una sintassi perlopiù paratattica; le parole corrono oltre i 180 km/h, in un indicativo accelerato, quasi una inedita modalità di tempo, mentre lo spazio della pagina è, come si diceva, frammentato in capsule di storie. Ci sono i coniugi Mercer, genitori di Marie, crocifissi al legno del dolore e della follia. Lola, la transessuale dedita alla missione del godimento, acuta e generosa, accoglie a sé clienti e guai: Lola è un vero magnete corporale di altre fisicità, che la schiacciano o la innalzano, la umiliano o le donano un breve cenno di tenerezza.
A vegliare sul mondo violento delle prostitute c’è Tìa Sonora, la messicana «spiaggiata» che assume il proprio nome di battaglia dall’omonimo deserto dal quale proviene, terra di delitti e snuff movies – e naturalmente Incardona cita Roberto Bolaño e specificatamente La parte dei delitti (la penultima sezione del magma romanzesco di 2666), parte che funziona come un «libro tibetano dei morti» con ambientazione messicana (la regione del Sonora appunto), tetro palcoscenico di polvere e cruenti femminicidi. Gérard Lucino è il direttore degli autogrill in franchise, è il datore di lavoro di Pascal, trabocca di oleosa vita e viscosi desideri.
Forse uno dei personaggi più riusciti, fra il dolente e il bestiale, è quello di Ingrid, la moglie di Pierre, umiliata dall’attesa della vendetta, che aspetta a casa una telefonata del marito e mentre aspetta si masturba e si fa sbattere dal primo che passa. Ingrid è una Penelope straziata e ridotta al grado zero della naturalità: è solo ascolto, radar carnale sintonizzato sulle frequenze di un sangue che avrà ripagato il sangue versato.
L’ottovolante dell’orrore di Incardona ha una velocità da fumetto e ogni sottigliezza è espulsa. Il lettore è un folle corridore su questa maledetta tratta d’asfalto: è seduto su un vettore direzionale che sussulta, singhiozza, sembra finire la benzina e poi riparte, si riavvolge. La linea autostradale innominata, una terra di nessuno dove oltre le opache strutture ricettive o i caselli del pedaggio non c’è molto è un nastro di Moëbius. Si ritorna sempre negli stessi posti, ma spesso il tracciato è cancellato. Ci si teletrasporta, quasi, come immagini mentali.
Si gioca quindi su due piani, che entrano in un rapporto dinamico l’uno con l’altro: mente e corpo. O meglio: astratto e concreto. La mente di Pascal, scrigno di epifanie al nero, vaso di Pandora che ha una cicatrice/zip – fra il letterale e il figurale – per scoperchiarsi a comando fa da contraltare al corpo di Pierre. Lui è ossessionato dal corpo. Nel suo delirio vendicativo si domanda: «Cosa significano [le parole] quando rinunci all’alfabeto, ti allontani dal linguaggio, quando diventi muto» e più avanti conclude: «aprigli la pancia a quel figlio di puttana, srotola i suoi maledetti nove metri d’intestino, spargili alla luce del sole. Tira fuori tutta la merda, Pierre».
Il corpo di Julie Martinez, stressato da tutta la robaccia che uno sbirro deve ingurgitare per sopravvivere alla tensione e ai turni, il suo corpo afflitto dalle mestruazioni e dall’afa, ma anche da feroci impulsi libidinosi. Per non parlare di Ingrid e di come ‘tortura’ il suo corpo o di Lola. Lottano con queste immagini di forte concretezza passaggi come questo: «Ingrid ha ragione. Niente corpo, niente lutto. Il nulla».
Si è parlato di lotta, non a caso. Di battaglia. Infatti, in un passaggio icastico si spiega cosa sia la «metà del diavolo»:
«333/666 diviso 2.
La metà del diavolo
L’altra metà, che cos’è? […] L’altra metà quella per cui resistiamo, che cos’è? Qual è il contrario del diavolo, Pierre?».
Per cosa lottiamo allora? Verrebbe da dire: per recuperare (qualcuno si ricorda del film Repo man? Era il 1984 e il regista era quel campione del cinepunk Alex Cox) lacerti di ‘umano’ dalla volatilità nella quale viviamo. Sebbene la sentenza sia spietata, giacché «il Male è uguale ovunque, sulla terra, ed esige che tu lo guardi», proprio la necessità di fissarlo al microscopio testimonia una sopravvivenza, come la filigrana di uranio che ogni essere umano porta incisa nel proprio sistema biologico. Contendiamo la nostra carne al «nulla» che qui prende le sembianze dell’«acido» discioglitore, altra marca stilistica e tematica che proviene direttamente da un immaginario poliziesco anni ’80.
Teatro postatomico si sarebbe detto e invece è solo postmoderno: è splendida la scena della ragazza nella cabina illuminata di notte. Lei dice a Pierre: «Ormai tutti mi chiamano Blondie. E allora ho rinunciato a tornare al mio colore naturale, il castano, perché altrimenti perderei il mio nomignolo e magari non mi riconoscerebbero subito e la cosa potrebbe sorprenderli, o rattristarli…». Dopodiché Blondie si ‘esibisce’ in uno spogliarello alquanto sbrigativo cosicché immediatamente quella cabina con un «clima tropicale» diventa l’acquario di un peep-show.
Questa scena è propriamente una messinscena: tutto è scheggia di spettacolo e tutti siamo attori-spettatori. Il mondo così astratto e «dissolto» dove si dipana questa vicenda durissima e cattiva è una macchina che deglutisce di continuo tasselli di storie e spettacoli gore già letti altrove. Non è neanche esatto parlare di citazionismo, semmai di remix. Incardona, propriamente, combina segmenti narrativi che provengono da un catalogo sterminato, talché La metà del diavolo è davvero un libro di libri.
Ma da questa specie di annichilimento di fronte alle sterminate lande del ‘già-visto’ sorge la spinta al combattimento. Il romanzo noir funziona allora come una specie di metal detector di materia nel regno dello smaterializzato. La macchina romanzesca di Incardona ha fame di corpi e di storie, consapevole che il suo sguardo può muoversi soltanto fra ologrammi e simulazioni; si sottrae dalla logica della trama per dedicarsi alla logica dell’evento.
Sono eventi come atomi di storie, cellule di narrazione che interferiscono le une con le altre. L’intreccio da giallo, la detection è davvero ridotta al minimo. I personaggi sono poco più che funzioni narrative. C’è l’Eroe (Pierre), il Guardiano dell’ombra (Tìa Sonora), l’Antagonista, l’Aiutante (Julie), il Catalizzatore (Marie). Non c’è percorso di scoperta: semmai di distruzione e autodistruzione. Le carte sono intavolate fin da subito e anche il più blando dei lettori di thriller capisce che una frase come questa: «Nel profondo, sanno ormai di cercare l’etere. Non si tratta più di trovare la vittima ma di catturare il colpevole» possa suonare come essere una dichiarazione d’intenti.
È una resa dei conti quella che il narratore prepara per i suoi personaggi: non c’è indagine, solo polvere e miraggi d’asfalto.
Come dicevamo, quello che conta, agli occhi del narratore, è la valenza in sé di ogni singolo momento e sebbene un disegno – il progetto di thriller da alti standard internazionali– sia corteggiato, è altrettanto vero che le tessere non s’incastrano e rimangono particelle aguzze e incongrue: ma paradossalmente è questa incompiutezza che genera forza narrativa. La sensazione di non perfetto dosaggio della miscela mitiga la stilizzazione estrema del fraseggio sincopato. È come se Incardona avesse cercato il plot perfetto, ma poi avesse volutamente sabotato la grande tessitura del suo intreccio, creando perciò una sorta di spazio bianco a suo modo sovversivo, giacché sono circuitati proprio gli interruttori che azionano le consuetudini del lettore alle prese con una letteratura come questa.
È accostando brutalmente i materiali di altre pratiche scrittura e di visione che Incardona travolge il citazionismo postmoderno e, al tempo stesso, trova una paradossale zona di resistenza di umanità.