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Presente e periferico: Cleopatra va in prigione

«Che ti devo dire. Non ci penso troppo ma ci penso ancora. Il carcere è come un presepe. Ci sta il matto, il brutto e il cattivo. Ci sta la checca, ci sta la guardia. Ecco, forse le guardie stanno pure peggio, perché uno come me almeno esce. Prova tu ad andare là dentro tutti i giorni. Alcuni sono bastardi, ma qualcuno ti fa pure simpatia. È un carcerato come te, alla fine.» (108)

È Aurelio a parlare, una volta fuori dal carcere, a cena per i 31 anni di Caterina. Aurelio che non ci pensa troppo ma ci pensa ancora, Aurelio che da libero pensa a chi libero potrebbe non esserlo mai.  Caterina l’ha incontrato quando erano poco più che adolescenti, insieme a Mario hanno aperto un night, poi le cose non sono andate come dovevano. Mario se n’è andato, Caterina è rimasta, Aurelio è finito dentro. Il tempo galoppa, ma il tense che Claudia Durastanti utilizza per raccontare la storia di entrambi è il presente in tutte le sue scintillanti possibiliste (stagnanti?) sfumature. Il poliziotto, l’Altro in questa storia piccola, è un amante a termine, che scade con l’uscita di prigione di Aurelio. Il poliziotto (senza nome né colpe) è sì l’uomo di Caterina, ma anche colui che in un passato solo evocato l’ha più volte interrogata sui fatti. Ama e intima, il poliziotto, ma siamo lontani dall’usurata relazione impari, basata sul potere che uno esercita sull’altro. No, pare proprio amore questo, un amore modesto e normale, quello di un uomo pacato per una ragazza più giovane, quello del detective a riposo che si ricorda il giorno del compleanno della sua donna perché ne ha fotocopiato i documenti per una deposizione.

«Io e Aurelio. È una cosa che va oltre tutto. Non si può neanche chiamare amore. È una cosa che è sempre…» esistita, dice Caterina, ma il poliziotto le mette una mano sulla bocca per farla stare zitta.» (121)

Caterina dunque ha attorno tipi umani che non luccicano: satelliti traballanti, né affascinanti né colpevoli, per i quali prova un sentimento sincero. Amante e traditrice, succube e autoritaria, Caterina non è mai ferma: controlla le sue relazioni ma perde il controllo senza vergognarsene, comanda e subisce, è piccola e grande, intera a ammaccata, è una ballerina classica finita sotto le luci di un night. È la ragazza di un uomo che le ha rotto un’anca per errore, è la donna del poliziotto che ha messo nei guai socio e fidanzato, è la figlia di una donna che ha rischiato di morire di parto. La compresenza di tante Caterine in un solo personaggio non fa che rafforzare la sensazione di leggere – e vivere – in un presente costantemente instabile. Non l’affresco di un fallimento però, perché anche se tutto pare immobile e a tratti mediocre, Caterina è sempre in grado di dirigere o subire azioni ed eventi in modo consapevole.

Anche la Cleopatra del titolo, seduttrice di Cesare e Marco Antonio, è una delle tante Caterine: in particolare è la Caterina truccatrice che cerca nei personaggi cinematografici l’ispirazione per imbastire una maschera di trucco perfetta sui visi delle ragazze che ballano nel night. Da prima ballerina ammaccata, Caterina si ricicla addetta trucco/parrucco, non c’è sofferenza, solo una punta di rammarico; la scelta è sua e funzionale: tornare utile al progetto, farne parte costruendone gli attori.

Si è molto parlato della romanità del romanzo di Durastanti e del fatto che la scrittrice – più a suo agio in altre ambientazioni – abbia deliberatamente scelto di raccontare quella Roma di periferia tanto cara ad alcuni prodotti cinematografici (Claudia cita Non essere cattivo, Jeeg Robot) inserendosi in un trend in cui il dettaglio non è più qualcosa di qualificante ma è l’atmosfera a lasciare che il lettore immagini il dettaglio. Finita l’ossessione per la toponomastica, per i marchi, per i nomi più che completi, Cleopatra va in prigione torna a essere un romanzo senza dove: assolato sì, ma non forzatamente romano. È scritto in una lingua piana, in cui ci si trova a proprio agio anche da non romani. Le periferie però non sono tutte uguali e il fatto che Durastanti possa descrivere la propria senza che il lettore la identifichi con una in particolare fa parte del gioco dell’arte. Periferico è il lettore che ruota intorno a Caterina, periferici i personaggi, periferici i ricordi e i sentimenti di cui si parla e che mai si mostrano. Periferia certo, ma come condizione e motore narrativo, prima ancora che contesto.

Nel racconto omonimo inserito nell’antologia L’età della febbre, uscita per Minimum Fax nell’aprile del 2015, vi sono una serie di momenti raccontati in sommario, che Durastanti ha poi esploso in scene nel romanzo. Al contrario, alcune scene presenti nel racconto, nel romanzo sono state omesse: si tratta per lo più di scene di sport, istantanee di danza e pugilato, momenti in cui Aurelio e Caterina si allenano, ritrovando attraverso la fatica ciò che li lega e che a parole faticano a esprimere.

La sensazione è che Durastanti abbia allenato i suoi personaggi affinché nel romanzo godessero di una libertà che senza il trattamento narrativo subito nel racconto non avrebbero avuto. Una libertà narrativa, emotiva e di linguaggio: Caterina e Aurelio ormai sanno chi sono e ce lo raccontano con estrema lucidità.

 


Claudia Durastanti, Cleopatra va in prigione, minimum fax 2016, 129 pp., 15€.