Un unico filo conduttore tematico – il disorientamento e la discontinuità esistenziale dell’Io – mi pare attraversi e tenga insieme le quattro sezioni – Sand, Boats, Shadows, Muses – della nuova silloge di Marco Fazzini, edita da Hct Press in versione bilingue (italiana ed inglese, grazie alla traduzione di Douglas Skinner) e impreziosita da alcuni scatti di Paula Sweet a segnare l’inizio di ogni sezione.
Preferisco percorrere il libro seguendo quest’unico sentiero tematico, anche se nel testo sono presenti nuclei tematici secondari, propri di ogni sezione, alla cui individuazione rimando volentieri il lettore.

La vita, dunque, come un arenarsi lento in dimensioni fuori dal tempo, tagliate all’improvviso da ricordi o immagini di vivaci elementi naturalistici, spesso marittimi (spiagge, dune, piccoli porti, barche, vele, onde), che diventano gli unici appigli al reale: «Non rimane che l’attesa | a ora tarda di barcane | a mezzaluna sopra i rostri | d’un deserto inaspettato» (Deserto del Namib). La vita che può configurarsi come una deriva di senso in cui le rotte dell’uomo diventano mistero; un mistero inteso come oscillazione incomprensibile in spazi quasi onirici in cui l’Io naufraga malinconico ma anche curioso: «Bevendo, bevi tristi battaglie, | fondi d’attese, millenari kraal | deserti, motivi pizzicati sull’arco | d’un boscimano che s’attarda | sul tuo cuscino di foglia e trema | nella scheggia d’un sogno» (Welwitschia Mirabilis).

In questa sospensione di precise coordinate spazio-temporali, alcune immagini si presentano con una certa frequenza nel corso dei vari componimenti, spesso con un duplice senso: la sabbia (della spiaggia o del tempo?), la polvere-detrito (di una conchiglia o della vita stessa?), la distesa del mare (calmante o dispersiva?). Sono immagini lievi ma incisive tra le quali l’io poetico si aggira apparentemente lucido, lasciando tuttavia la sensazione di una tragica perdita della continuità della propria esperienza di uomo: «Ho camminato lungo questa spiaggia | un pomeriggio e poi ancora un altro | […] un grande corvo sopra un palo | mi scruta dentro il vuoto. | Domani sarò già partito» (St. Andrews). Persa la rotta, la vita rischia di essere un continuo vagare, lontano dai consueti riferimenti identitari: «Andrò domani a un altro porto | dove sono già stato, dove sono già morto.» (Andrò domani), «Rimango un poco | fermo a largo. | La solitudine del mare | è calma, impenetrabile […] | e allora mi lascio | trasportare alla deriva» (Rimango un poco).

Nell’ultima sezione della raccolta (Muse), un innamoramento, descritto in modo vivace e con delicate venature erotiche che ricordano per certi aspetti alcuni versi di Ungaretti (penso ad esempio a Giunone), pare dare nuova energia e direzione al disorientamento del poeta: «Furono i tuoi occhi | della luce della primavera | a colpirmi | e quelle gambe affusolate | con rigore accavallate» (Case galleggianti). Il disorientamento in questa sezione si fa più lieve, quasi giocoso e permette l’accesso ad altri paesaggi (esterni ma forse anche psichici): «Che gioco è mai questo? | Io ti prendo come musa, | tu mi chiami dalle nuvole | e mi lasci intravedere | la montagna, ogni stella, e il pulsare | di quel mare» (Che gioco). Questa sensazione dona a volte una gioia autentica («il tagliente scandalo della felicità») capace di fendere con rinnovata vitalità quella patina di estraniamento che circonda l’io poetico: «I miei piedi sopra l’acqua, | desiderosi di arrivare a casa, | trovare una dea raggiante | a nuotare con eguale desiderio, | un pesce dentro i flutti | delle schiume tropicali» (Case galleggianti).

Ciò che, mi pare, caratterizzi la raccolta in termini stilistici è un versificare terso, lucido, conciso, privo di fronzoli sintattico-lessicali. Ci troviamo in un contesto di versificazione libera ma abbastanza legata alla tradizione: c’è un’attenzione metrica, il discorso poetico segue un registro lirico in cui l’io di chi scrive è spesso in primo piano, la scrittura, guidata dal ritmo, riesce ad essere evocativa più che descrittiva. Impreziosite da rime anche interne che non risultano mai invadenti, le poesie traggono la loro forza dall’efficacia delle immagini marine fresche e delicate – di un nitore che ricorda a tratti di alcuni componimenti di Penna – e da un ritmo preciso, garantito da un meditato utilizzo di versi brevi e di punteggiatura e cesure frequenti. Questi espedienti tecnici consentono a Fazzini di creare una condizione di sospensione meditativa e ondeggiante decisamente suggestiva, un ritmo che guida il lettore ad immergersi gradualmente, più che a tuffarsi di colpo, nel testo poetico.

Una poesia che si distingue soprattutto per la sua delicatezza sonora e per le descrizioni paesaggistiche, rese con pochissime “pennellate” e sempre cariche di forza analogica: «Così volevo la poesia | materia bianca, accarezzata. | Piuma, petalo o carta | al limitare di un’alba» (Così volevo). Una modalità lieve di forgiare il verso con la quale Fazzini bilancia verso l’alto il peso della propria umanità, in un «inganno di pesi | [che] pareggia il conto con le stelle» (Bilancia).