Il fatto che io dimentichi le cose non toglie niente al senso delle mie azioni. Il mondo continua ad esserci anche se chiudi gli occhi, no? (Leonard Shelby, Memento)
Da qualche anno assistiamo al ritorno della fantascienza per come la intendeva Isaac Asimov. Dopo anni di estetica cyberpunk dai risultati altalenanti, giunge questo rappel à l’ordre che riconduce il genere fantascientifico a un rigore tematico e filosofico figlio di un altro tempo. Se nella serialità televisiva il caso più eclatante è rappresentato da Black Mirror, nella letteratura abbiamo gli esempi di Don DeLillo e Dave Eggers, usciti proprio in questi anni con due opere dagli elementi fantascientifici, Zero K e The Circle (da quest’ultima è stata tratta una versione cinematografica con protagonisti Emma Watson e Tom Hanks che vedremo nel 2017). L’evoluzione tecnologica non è più uno dei temi principali dei dibattiti, ma Il tema, tanto da indurre Werner Herzog a girare il documentario Lo and Behold, sulla nascita e lo sviluppo di Internet. Del resto ci aveva già pensato Stephen Hawking, il luglio scorso, a scaldare gli animi, mettendoci in guardia contro un’eccessiva fiducia nell’intelligenza artificiale. La fantascienza insomma non è più un gioco con cui immaginare futuri possibili, ma lo specchio attraverso il quale interrogare il nostro presente. Da queste premesse nasce anche Westworld, già da molti considerata la serie televisiva dell’anno. In un futuro imprecistato e in un luogo ancor meno definito sorge un parco tematico sul mondo del vecchio West, popolato da robot del tutto simili agli umani e ideati per soddisfare la voglia di avventura dei ricchi visitatori. Tutto è lecito a Westworld e non esiste mappa del territorio. Le linee narrative da seguire sono molteplici, come in un odierno videogioco action RPG open world dove il campo d’azione è limitato il meno possibile. Si può scegliere di restare al saloon in compagnia di Maeve e delle sue protette, oppure cercare il brivido del sangue andando a caccia di pericolosi criminali. Alla fine di ogni quest il campo viene ripulito e una squadra di tecnici ripara i robot, sempre pronti a ricominciare la loro linea narrativa, dimentichi delle violenze subite.
Creatori della serie sono Jonathan Nolan e Lisa Joy, marito e moglie conosciutisi sul set di Memento, film diretto dal fratello di Jonathan, il più noto Christopher. C’è più di un elemento a legare la pellicola del 2000 alla nuova serie televisiva di punta della HBO. Il film nasceva da un’idea di Jonathan, che durante un viaggio a Los Angeles racconta al fratello la storia di un uomo che voleva vendicarsi dell’omicida della moglie, ma non ricorda niente a causa del trauma. Ne uscirà uno dei film più innovativi del nuovo millennio, grazie soprattutto all’inedita struttura narrativa. Per il protagonista, come per lo spettatore, ogni nuovo segmento diegetico di Memento è al contempo un’interruzione percettiva, un blackout conoscitivo, una perdita di senso e, parallelamente, una ripartenza attraverso una narrazione a ritroso che produce un progressivo svelamento.
Ed è dal medesimo dispositivo narrativo che Jonathan costruisce Westworld, il parco iperrealistico in cui ogni giorno donne e uomini (robot) iniziano una storia che si ripete ciclicamente. Dolores, il più antico robot del parco, si sveglia ogni mattina nel suo letto, dimentica delle violenze subite e delle sue innumerevoli morti, pronta a far ripartire la personale linea narrativa; allo stesso modo Leonard, il protagonista di Memento, al suo risveglio riparte da zero e ricostruisce la sua identità e lo scopo del suo agire attraverso segni e appunti. Massimo Zanichelli, in un saggio sul cinema di Christopher Nolan intitolato Christopher Nolan, il tempo, la maschera, il labirinto descrive bene questa condizione che accomuna Westworld e Memento: “L’intero intreccio presuppone una perenne circolarità, l’eterna coazione a ripetere del soggetto principale dentro il labirinto di un’indagine che non può (per il problema della memoria) e non vuole (per sfuggire alla realtà) essere risolta”. Proprio il labirinto risulterà centrale nel prosieguo della prima stagione di Westworld rappresentando il sacro graal che l’uomo in nero, un misterioso visitatore del parco privo di scrupoli e che conosce molto bene il gioco, cerca ostinatamente senza sapere cosa sia realmente: luogo fisico celato ai confini del parco o metafora della coscienza dei robot? Il loop è la loro condizione di schiavi e il codice di programmazione è il comando attraverso cui gli host sono sottomessi. Gli host obbediscono al racconto di qualcun altro e accolgono ogni riscrittura della storia come una nuova verità. Come in Memento, dove Leonard sovrascrive la verità con la sua personale versione dei fatti, cambiando ogni volta l’obiettivo della sua vendetta: non importa chi sia o se esista davvero Sammy Jankis – l’assassino della moglie – l’importante è trovarlo e ucciderlo.
In Westworld vittime e carnefici si sovrappongono e si alternano in una continua riscrittura dei ruoli, trasformando la realtà all’interno del parco come un eterno palinsesto. Più che una serie sui robot e i pericoli legati a una loro evoluzione, il tema di questa serie è dunque la fiction – intesta come finzione – e la maschera, temi già toccati da Jonathan nelle sceneggiature di The Prestige, The Dark Knight – Batman e Jocker come facce della stessa medaglia – e ovviamente Memento. La fantascienza diventa mezzo per sondare le infinite possibilità del racconto, che finisce per assorbire la realtà e rimodellarla a proprio piacimento, confondendo definitivamente i piani di verità e finzione.