Xavier Dolan, prolifico enfant prodige canadese che a ventisette anni ha già all’attivo sei lungometraggi che si sono distinti nei più prestigiosi festival internazionali – Cannes fra tutti – è in sala in questi giorni con il suo nuovo film: È solo la fine del mondo. Di norma sceneggiatore delle sue opere, Dolan attinge invece questa volta ad una pièce teatrale – probabilmente dagli spunti autobiografici – del francese Jean-Luc-Lagarce.
Il protagonista del dramma, Luis (Gaspard Ulliel), gay sieropositivo scappato di casa per seguire la sua vocazione artistica e per sfuggire ad una famiglia incapace di essere un nido per qualcuno, decide di rifarsi vivo dopo anni di silenzio per comunicare la sua imminente morte. Ad accoglierlo trova una sorella che non ha visto crescere (Lea Seydoux), un fratello invidioso di lui e furente col mondo(Vincent Cassel), sua moglie (Marion Cotillard), sottomessa vittima di rabbia e violenze, e una madre senza opinioni (Nathalie Baye), che riesce ad esprimersi unicamente attraverso gesti e frasi convenzionali.
È solo la fine del mondo più che un film drammatico è un vero e proprio film dell’orrore, come sottolineato efficacemente dalla fotografia di André Turpin: un trionfo di grigi, di ombre che scavano i volti, di stanze buie e anguste, nonostante l’ambientazione diurna. Le immagini ricreano alla perfezione la claustrofobia di cui Luis è vittima: debole insetto recatosi volontariamente nella tela del ragno, non può che arrendersi all’evidenza che verrà divorato.
Già prossimo alla morte, si ritrova così agonizzante prima del tempo, ucciso dalle parole che i membri della sua famiglia disfunzionale gli vomitano addosso: parole crudeli, sofferte, meditate per anni, rimuginate e arrovellatasi infinitamente su se stesse prima di esplodere in una rabbia cieca e distruttiva. È centrale il verbo nell’ultima fatica di Xavier Dolan che, come subendo la provenienza teatrale del suo soggetto, sostituisce al potere delle immagini e dei silenzi un blaterare continuo carico di sofferenza. Gli attori sono tutti interpreti formidabili, ma una sceneggiatura così strutturata in un preciso schema di parola e reazione ad essa, crea una rete di finzione da cui è davvero difficile divincolarsi. I personaggi finiscono per risultare un po’ bidimensionali, in particolare Vincent Cassel, la cui aggressività pare essere, oltreché incontrollata, anche gratuita e non supportata da un reale dolore. Vero è che il tutto potrebbe essere una scelta precisa di Dolan: il numero di parole che i personaggi pronunciano pare essere infatti inversamente proporzionale alla loro umanità e alla loro capacità riflessiva. Così le figure che appaiono al pubblico maggiormente interessanti, e a loro modo misteriose, sono proprio quelle che interloquiscono di meno, cioè il protagonista, Gaspard Ulliel, e Marion Cotillard. Quest’ultima è in grado di vedere al di là di sé stessa proprio quando si azzittisce: superata un’iniziale verbosità, è la sola a comprendere davvero cosa stia succedendo tra le quattro mura. Un’unica location quindi, con la sola eccezione del viaggio in macchina dei due fratelli, a testimoniare ancora la provenienza teatrale del film.
Dolan è un regista che da sempre dichiara la pluralità dei suoi riferimenti stilistici: non aderisce ad un modello tout court, ma ispirato invece da opere tra loro molto diverse, è capace di creare qualcosa di estremamente innovativo dal punto di vista formale. Nonostante la giovane età è chiaramente dotato di un occhio già esperto e capace di contaminare tecniche e generi con risultati sorprendenti. I suoi film, tutti drammatici e di ambientazione familiare, spesso focalizzati sui rapporti madre-figlio, sfuggono di norma ai rischi retorici del mèlo grazie all’abilità tecnica e all’umanità che da essi trasuda. È infatti capace, grazie ad una direzione perfetta degli attori (è attore lui stesso) e ad un uso sapiente delle inquadrature, di rappresentare tridimensionalmente l’animo umano: mette in mostra sofferenze infinite senza che risultino stucchevoli, mitigandole con poesia ed ironia. In questo film invece, come accennavo precedentemente, i protagonisti paiono essersi ridotti a caratteri, pure funzioni, e smarriscono ogni verità e umanità. Sembrano essere delle stigmatizzazioni di un sentimento preciso. Anche tecnicamente il Dolan che all’inizio di Mommy poteva permettersi di restringere il campo visivo ad un 1:1, che osava inquadrature atipiche e varie – prima morbose ad insistere sui dettagli e subito dopo piani sequenza larghi e mossi contro ogni grammatica cinematografica – ; il Dolan che destrutturava gli attori, portandoli in scena scevri di ogni compiacimento, che alterava tempi e spazi, dilatandoli infinitamente e sviluppando una sorta di spazio mentale in cui lo spettatore entrava in una perfetta sintonia coi personaggi, quel Dolan pare in quest’ultimo film essersi smarrito. “È solo la fine del mondo”, che lui stesso dichiara in un’intervista essere la sua opera migliore, è invece per me un passo indietro nella sua filmografia: viene meno quella spontaneità e quell’incoscienza che rendeva i suoi film unici e solo suoi.
Ma Xavier Dolan, il prolifico enfant prodige, sembra non potersi fermare mai: il suo nuovo film “The Death and Life of John F.Donovan è già in post produzione. Basterà quindi attendere il 2018 per scoprire se il film uscito questo fine anno sia stato solo un passo falso o le prime avvisaglie di una creatività in affanno per sovrapproduzione artistica.