Quando uno scrive, sta scrivendo anche la storia del proprio lettore, tiene a mente almeno un paio di biografie: la propria, inevitabilmente, e quella di chi si troverà di fronte alla parola scritta, per non dire di tutte le altre vite, delle vicende dei possibili personaggi della trama, nel caso di un oggetto narrativo. La costruzione del lettore ideale sembra essere uno dei primi atti coscienti o incoscienti di un autore, ma è anche una decisione sulla quale si continua a fare ritorno: non si smette mai di riflettere su chi saranno coloro che per affinità del vissuto e, quindi, del gusto, si troveranno ad apprezzare maggiormente la nostra opera, il nostro articolo di giornale, il nostro post di Facebook. Anche quando non esplicitamente tematizzata in saggi accademici – si pensi al semiologico Lector in fabula di Umberto Eco –, la questione tende a ricomparire nelle più modeste interviste in cui, magari, si vada a domandare all’esordiente a quale pubblico speri di rivolgersi, chi vorrebbe che leggesse il suo libro. Abbiamo in mente un lettore ideale anche nel caso in cui vengano a chiederci la nostra opinione sullo stato dell’arte, nonché sul suo statuto: che cos’è la letteratura? Quali sono i suoi scenari presenti e futuri? Tutto dipende da chi ha e avrà ancora voglia di rivolgersi alla letteratura per raggiungere i propri scopi, ma è esattamente su queste finalità che, da sempre, ci dividiamo: tra quelli che sembrano intendere l’esperienza della lettura come un passatempo, uno svago, una tecnica di rilassamento, e chi, piuttosto, ne dà un’interpretazione più impegnata e preferisce considerarla un approfondimento, uno stimolo alla riflessione esistenziale, o addirittura la scintilla d’avvio per una presa di posizione sociale e politica.
Insomma, da un tale processo di immaginazione del lettore-modello è difficile sfuggire, ed è dall’analisi delle sue fasi che, spesso, si riesce a dare un’interpretazione dell’opera dello stesso autore, che ne è “ideologicamente” e stilisticamente influenzata. Prendiamo Antonio Moresco, il quale dichiara (su Mangialibri) la propria predilezione per “un lettore che non fa della letteratura un uso pacificatorio ma che si sente ancora inappagato”. Non soffrirà di solitudine, quel lettore ideale, perché Andrea Tarabbia e Giorgio Falco, per esempio, sembrano delinearne uno molto simile. Il primo, autore de Il giardino delle mosche e romanziere stimato dallo stesso Moresco, dichiara (su Linkiesta.it) la propria avversione per “la lettura come consolazione, come tranquillizzante occupazione del tempo libero”, perché “il libro deve prenderti a schiaffi” e non abbiamo tempo da perdere con “cazzate consolatorie”. Prosegue, Tarabbia: “La letteratura deve essere disturbante. (…) I libri più grandi sono quelli che maltrattano il lettore”. Uno scrittore autentico, quindi, non si presterà a “dire quello che la gente vuole sentirsi dire”. Chiudiamo con Falco, che (su il lavoro culturale) attribuisce alla letteratura – alla propria, a quella che predilige – un potere epistemico, quello di restituire al lettore “la percezione delle reali condizioni in cui siamo”, che allo stato attuale sarebbe “scarsa”, attraverso uno scavo che consenta di riportare alla luce le essenze occultate dai fenomeni: creazione e fruizione sarebbero o dovrebbero essere, dunque, attività anti-superficiali che permettano di aprire gli occhi, di evitare self-deception e wishful thinking. Ancora e più diffusamente: “Il lettore ideale, in generale, per me è colui che non si accontenta, che si irrita appena vede i trucchetti, l’autocompiacimento dello scrittore”, tutti quei mezzucci utilizzati “per solleticare processi di identificazione che non smuovono nulla. Come quando lo scrittore culla il lettore, e il lettore si abbandona al reciproco riconoscimento: è la cosa peggiore che possa accadere alla letteratura”. L’adesione, l’esercizio, l’abnegazione che Falco richiede sono ingenti, perché “il lettore deve forzarsi, far forza su di sé, calarsi nel sottofondo”, al fine di operare una rivoluzione dello sguardo.
Una tale somiglianza dei rispettivi lettori ideali giustifica la tentazione di radunare Moresco, Tarabbia e Falco sotto una categoria comune? Il lettore “inappagato”, “da maltrattare”, “che non si accontenta” e “che deve forzarsi” agisce o retro-agisce sulla natura dei loro scritti? Per il momento, è meglio limitarsi a commentare una disposizione, un atteggiamento che ha aspetti paradossali: infatti, proprio nella troppo esibita volontà di oltrepassare la superficie non è raro notare un po’ di superficialità, se davvero è il caso di adottare una contrapposizione e un lessico tanto inadeguati e vaghi. La più vasta e generica procedura di “problematizzazione” della realtà che ci circonda non viene estesa alla consapevolezza inattaccabile che la propria attività letteraria sia una rarissima o la sola porta d’accesso alle profondità della psiche umana, alla “realtà effettuale”, alla sua trama dolente: difficile, così, mettere a tacere il dubbio che l’efficace operazione auto-promozionale non finisca per prevalere sul generoso dono della propria sofferta saggezza alle masse. Più che tradizionali esplicitazioni di poetica, un osservatore (piuttosto maligno, certo) potrebbe inquadrare quelle di Moresco, Tarabbia e Falco come tecniche dell’intimidazione: in quanto tali, possono essere subite, ma anche fermamente respinte.
Esprimendo la propria eccezionalità, la propria differenza rispetto a un presunto panorama letterario e/o civile in sfacelo, fatto di scrittori-massa per lettori-massa, non si cerca di fare altro che, tautologicamente, questo: differenziarsi, essere riconoscibili, acquisire crediti attraverso la dichiarazione, qualora la creazione non lo permetta a sufficienza – con ciò, non si vuole mettere in dubbio la qualità letteraria delle opere dei tre autori, perché lo scopo è un altro: dico che, nel caso in cui l’opera faccia difetto, la dichiarazione possa intimidire e supplire, che la dichiarazione sia un’assicurazione. Dico che, per essere profondi, non è necessario o, piuttosto, non basta eleggere Andrej Romanovič Čikatilo a protagonista del proprio romanzo: si può esserlo anche narrando un Natale a New York, senza che ciò comporti una deriva vanziniana.
Ma è possibile un’altra maniera di fondare il rapporto con il proprio lettore? Ci sono anche scrittori, magari meno visibili, che sembrano pretendere un lettore più “intelligente” di loro, a differenza di quelli che scelgono di raffigurarlo come massificato e poco reattivo, quasi catalettico e, di conseguenza, si sentono inclini ad ammaestrarlo: questi ultimi, inoltre, da che cosa derivano una presupposizione che sembra infondabile, piuttosto che soltanto infondata? Immaginare un lettore sprovveduto e colpevole permette “semplicemente” allo scrittore di porsi sul piano più elevato per dispensare agli stolti qualche raggio della propria luce: imposta una gara non giocata alla pari, un compito meno impegnativo, a dispetto della logora retorica della profondità. Non che non esista una letteratura consolatoria, ma sarebbe il caso di intendersi una volta per tutte sul significato di tali denominazioni e classificazioni, e sul fatto che la consolazione conduca necessariamente all’inattività, alla rassegnazione. Le masse, o certe masse, sono diventate affamate di “pensiero critico” e se lo sgranocchiano per colazione, davanti al cappuccino. La mitografia moreschiana dell’escluso, del reietto e dello snobbato dal Sistema fonda quella complementare dell’esclusivo, dell’élite culturale che sa apprezzarlo e ricoprirlo di tributi, in polemica “antropologica” con una società circostante che non sarebbe in grado di riconoscerne la genialità, la smisuratezza, l’irriducibilità. Siamo certi che il lettore che Moresco desidera, e che evidentemente incontra, sia soltanto “inappagato”? Non sarà anche un po’ annoiato, vulnerabile, e nell’attesa smaniosa che un’avanguardia, sia essa letteraria o politica, lo scuota e lo risvegli, gli consenta il ripristino di un’identità spendibile, nella fitta nebbia delle patrie lettere e delle democrazie post-ideologiche?
“Scrivo i miei libri per cambiare la gente”: parola di Jonathan Safran Foer. Ma com’è, questa “gente”? Verrebbe voglia di alzare la mano e chiederglielo, a Foer: questa gente bisogna condurla dal punto A al punto B, giusto? Bisogna provocare una trasformazione di stato, far sì che alcune caratteristiche della gente vengano eliminate, altre guadagnate, magari, no? A volte, si avverte la mancanza di un circolo di Vienna applicato alla letteratura, o quantomeno alle dichiarazioni programmatiche degli scrittori, alla presunzione che le accompagna: di un Carnap che faccia scempio di alcune proposizioni che i neo-positivisti non avrebbero esitato a definire metafisiche, nel migliore dei casi, o prive di senso, se li beccavi in una giornata storta – una modesta proposta sarebbe quella di applicare una sorta di moratoria delle interviste superomistiche dei letterati che possa durare qualche decina d’anni.
Non tutti i lettori sono disposti a farsi maltrattare, comunque, e non tutti attendono di essere illuminati dallo Scrittore Profeta o di contemplare i reperti ripescati dallo Scrittore Palombaro che perlustra i fondali, sonda gli abissi: tanta sbruffoneria e la volontà di redenzione del lettore dall’ignoranza e dalla pigrizia potrebbero essere ragioni sufficienti ad allontanare un certo tipo di pubblico da buona parte della narrativa contemporanea; ma anche a conquistarne altro di altro tipo, ovviamente. Infatti, come ci sono scrittori alla ricerca di lettori coi quali instaurare una relazione quasi sadomasochistica, così esistono lettori ben contenti di corrispondere, di sottostare, di essere costretti in un circolo (letterario) vizioso, e sono molti.
Se dovessimo, invece, disegnare un identikit più preciso del lettore che Moresco, Tarabbia e Falco, al pari di tanti altri loro colleghi, sembrano rifiutare, quasi condannare, tanto da volerlo rigorosamente escludere dal proprio pubblico, potremmo dargli un nome, chiamarlo “borghese”: le virgolette sono necessarie, data la pericolosità di una tale specificazione di classe, soprattutto in Italia, perché è da noi, più che altrove, che le vicende storiche della borghesia continuano a svolgere un ruolo abnorme, nel momento della creazione artistica e della riflessione critica; è da noi, più che altrove, che funziona lo spauracchio, che chiunque tende a sottrarsi all’accusa di essere borghese, che l’artista sembra essersi incaricato del compito di mettere in crisi una fruizione idealmente serena, idealmente pacificata.
Sarà piuttosto ovvio, cioè, risentire in ambito letterario di effetti di lunga durata causati da eventi storici anche lontani. Nel nostro Paese, per esempio, una classe che avrebbe dovuto qualificarsi come dirigente ed esercitare il proprio ruolo ha preferito scrollarsi di dosso ogni responsabilità e mettere su una sceneggiata che ha prodotto un ultimo e solo segno di riconoscimento: borghese è chi fa finta di non esserlo, chi rifiuta sdegnosamente di accettare i propri connotati e pretende e rivendica altre appartenenze. Qualora si vadano ad analizzare le ricadute a lungo termine di un fenomeno socio-politico che sembra sostanziarsi dallo stesso processo di unificazione e che ha contraddistinto il nostro intero Novecento, si noterà come la critica anti-borghese, che ha assunto la forma dell’avanguardia politica e letteraria, sia diventata un elemento fisso del paesaggio italiano.
Si tratta, però, arrivati a questo punto, cioè dopo l’esaurirsi di ogni sperimentalismo espressivo, di un’avanguardia declinata soltanto come atteggiamento da tenere di fronte a una presunta massa italiana di istupiditi: un’eredità minima di esperienze che miravano a ben altre sovversioni. Ma, soprattutto, è necessariamente vero che un lettore non all’ultima spiaggia, non bramoso di identificazioni forti, “appagato”, sia un cittadino debole e disponibile alla manipolazione epistemica? Uno come Goffredo Parise adorava leggere e rileggere le pagine di Somerset Maugham, nelle quali ritrovava “il pregio della banalità”, e sfido chiunque ad ascrivere lo scrittore vicentino ai ranghi degli irreggimentati e degli addomesticati. Resta una curiosità: arriverà un giorno l’autore che, rovesciando una consuetudine, risponderà di augurarsi un lettore soddisfatto e – si perdoni il termine – felice? Ci farebbe uno strano effetto, faremmo strani pensieri: e se la letteratura migliore nascesse e funzionasse proprio quando nessuno sembri averne più bisogno?