All’inizio degli anni ottanta Martin Scorsese, dopo aver girato Toro scatenato, pensò di andare a Roma a girare documentari sulle vite dei santi. Voleva convertirsi a documentarista, dedicandosi alla narrazione di quelle prove estreme di fede incrollabile, verso le quali il regista da Little Italy provava una profonda ammirazione. Nella Chiesa di San Clemente scopre un affresco che raffigura la storia del santo. Nel primo pannello c’è un uomo che viene assalito, nel secondo il malcapitato viene quasi ucciso, nel terzo viene salvato. La vicenda è descritta con un tratto rozzo ma espressivo e le scene sono sormontate da testi che sembrano baloon di fumetti. In questa straordinaria trovata Scorsese vi scorge un’anticipazione del cinema: immagini “in movimento” che compongono una storia.
Il rapporto tra il regista italoamericano e la religione ha radici antiche e lascia tracce nei film più insospettabili. la maggior parte dei suoi lavori, da Taxi driver a Quei Bravi ragazzi, contengono storie di colpa e redenzione, dove toccare il fondo è l’unica strada per la grazia. Non a caso Scorsese cita Il Cattivo tenente di Abel Ferrara come uno dei più grandi film sulla redenzione. La sequenza finale di Harvey Keitel che incontra Gesù nella chiesa era esattamente ciò che Scorsese cercava: un doloroso viaggio al termine della notte. Ci provò con L’ultima tentazione di Cristo, girato nell’89, il suo lavoro più sentito ma anche il più difficile, che rischiò di essere l’unica occasione per affrontare direttamente il tema della fede. Come fece un altro regista della sua epoca, Michael Cimino (scomparso pochi mesi fa) con i suoi Cancelli del cielo – opera tanto ambiziosa quanto fatale per la carriera del regista – Scorsese cerca di trasformare L’ultima tentazione in una sorta di manifesto poetico, finendo col perdere il controllo sulla materia e i tempi di lavorazione (“avrei avuto bisogno di altre due settimane di riprese supplementari… E anche di due mesi di montaggio in più”). L’errore commesso con il suo film-ossessione lo porta a riconsiderare il suo lavoro anche accettando di girare film che non nascono da un suo soggetto, quasi a volersi autodisciplinare.
Trascorsi alcuni anni, quello che era solo un talento è ormai un maestro affermato: il discorso interrotto molti anni prima può finalmente essere ripreso. Arriviamo così a Silence, il film sognato per quasi trent’anni, la storia ambientata nel diciassettesimo secolo di due gesuiti portoghesi pronti a sfidare l’ignoto Giappone feudale per ritrovare il proprio maestro spirituale. Il cambio di tono dall’ultimo lavoro di Scorsese del 2013 – The Wolf of Wall Street e il suo grottesco ottovolante di denaro e droga – è spiazzante. Niente colonna sonora, movimenti di macchina dosati e una sobrietà scenografica dal sapore europeo. Si avverte più che mai la volontà di Scorsese di confrontarsi non solo con il tema della religione, ma con tutta una tradizione cinematografica, la stessa da cui è egli stesso è partito e che sembra, anch’essa, attraversare una crisi di fede. La visione di Silence riporta alla mente film smisurati come L’impero del sole di Spielberg o L’ultimo imperatore di Bertolucci, tentativi di elaborare grandi racconti visivi incentrati su pochi magistrali personaggi. Oltre ai grandi registi della sua epoca, Scorsese ha un altro debito da saldare, quello con il cinema classico giapponese, da Mizoguchi a Kurosawa, per cui nutre una vera ossessione. Il Giappone ritratto in Silence è una terra alla fine del mondo priva di precise connotazioni. Gli abitanti che popolano questi luoghi avvolti dalle nebbie sono un mistero irrisolvibile anche per i coltissimi gesuiti. Il Paese del Sol Levante si presta quindi nuovamente a essere metafora dell’incomprensione – come già in passato in pellicole di ben altro registro, Lost in Translation su tutte – dove la presunzione di un messaggio universale come quello cristiano si scontra con un ordine delle cose del tutto sconosciuto. Come farà notare il personaggio dell’inquisitore Inoue al gesuita Rodriguez, il Giappone è una palude, in cui le le radici di ideologie e fedi straniere imputridiscono e alla fine si dissolvono. Ogni forma di pensiero nuova viene filtrata e “giapponesizzata”, mutando in qualcos’altro. Rodriguez si trova solo, portatore di un messaggio che è destinato a essere frainteso, e rientrando a pieno titolo nella galleria dei grandi isolati del cinema di Scorsese (da Travis Bickle all’Howard Hughes di The Aviator). Forse solo Kichijiro, la guida dei due due preti portoghesi che in passato rinnegò Cristo per avere salva la vita, può accogliere l’insegnamento del gesuita. Traditore come Giuda Iscariota, Kichijiro incarna l’elemento più profondamente religioso della pellicola, precipitando nell’inferno della colpa e rivelandosi per l’unico autentico destinatario del messaggio cristiano. A metà tra un personaggio dostoevskiano e il Kikuchiyo dei Sette Samurai di Kurosawa, Kichijiro è forse quel cattivo tenente che Scorsese cercava da anni, con la sua dolorosa e tardiva redenzione.
Silence risulta alla fine un’opera di non facile fruizione, dove a volte la qualità della scrittura non va di pari passo con tempi fin troppo dilatati, tuttavia si tratta di un film che riporta il cinema alla grande narrazione, riaffidandogli il compito di problematizzare il mondo attraverso le sue storie.