A volte devi essere un figlio di puttana per trasformare i tuoi sogni in realtà.[…] Se i tuoi avversari stanno annegando ficcagli un tubo direttamente in bocca. Non passare dal via, vai dritto all’inferno.
Così recita un significativo passaggio della canzone Boom, like that di Sua Maestà Mark Knopfler, tratta dall’album Shangri-La del 2004. Don Hanfield, produttore cinematografico, non appena ebbe modo di ascoltarla ne fu stregato a tal punto da caldeggiare la realizzazione di un film sulla figura centrale della canzone, ovvero mister Ray Kroc, controverso artefice dell’impero di McDonald’s. Sono i prodromi di The Founder, l’ambizioso biopic diretto da John Lee Hancock e nobilitato dall’interpretazione del Re Mida di Hollywood Michael Keaton.
Fedele al testo di Knopfler – a sua volta ispirato dall’autobiografia di Kroc – il lungometraggio di Hancock si guarda bene dall’edulcorare il sogno americano a diciotto carati di trasformare un piccolo locale a gestione familiare in una mastodontica catena di ristoranti di fast food (“la nuova Chiesa Americana” nella visione a grandangolo di Kroc). Ne nasce una sorta di rivisitazione del paradigma hobbesiano dell’homo homini lupus. Il lupo, palesatosi sotto mentite spoglie di un linguacciuto venditore itinerante, viene introdotto nel pollaio dai fratelli Dick e Mac McDonald e una volta venuto a conoscenza del loro rivoluzionario “sistema espresso”(che sforbiciò l’attesa per la preparazione di un hamburger dai canonici trenta minuti a soli trenta secondi) medita di esportarlo in ogni angolo del globo. Ripetendo il mantra “affiliazione, affiliazione, affiliazione” l’ex venditore di frullatori per milkshake dell’Illinois – vieppiù posseduto dal demone dell’ambizione – forgerà un impero di 1600 ristoranti dal fatturato complessivo di 700 milioni di dollari sbranando i candidi fratelli McDonald (“perché i contratti, come i cuori, sono fatti per essere spezzati”).
The Founder è un film compatto perché sorretto da una sceneggiatura a prova di bomba (firmata Robert Siegel, già scrittore dell’acclamato The Wrestler) e ancor più plasmato su misura per il “satiro di Hollywood” Michael Keaton, tornato a flirtare con il grande pubblico dopo anni costellati da film mediocri e scappatoie sia nel cinema indipendente (diresse e recitò in The Merry Gentleman, accolto con favore al Sundance Film Festival del 2008 ma ignorato dal pubblico) che in progetti televisivi di successo come la mini-serie della TNT The Company. La svolta sopraggiunse nel 2014, quando Iñárritu gli offrì la parte della celebrità decaduta Riggan Thomson in Birdman: risultato? Interpretazione memorabile e incetta di Premi Oscar per il sofisticato capolavoro del regista messicano, tra cui la statuetta per il miglior film. Un anno più tardi il testimone venne idealmente raccolto da Il caso spotlight e ancora una volta a capitanare la squadra degli attori del miglior film del 2015 secondo l’Academy figurava Keaton, perfettamente a suo agio nei panni del cronista d’assalto.
Il nuovo interregno dell’attore 63enne a Hollywood è direttamente proporzionale all’impetuosa ascesa del regista texano John Lee Hancock, uno degli storyteller più interessanti in circolazione. Dopo aver magistralmente sceneggiato le perle eastwoodiane Un Mondo Perfetto e Mezzanotte nel giardino del bene e del male e aver sperimentato una fase di fisiologico rodaggio dietro la macchina da presa con l’opera prima Un sogno, una vittoria e il verboso Alamo – gli ultimi eroi, Hancock ha spiccato il volo con le prove della maturità The blind side e Saving Mr Banks . Se con le sue prime fatiche Hancock ha esplorato il sogno americano dalle più svariate angolazioni con echi sentimentali alla Frank Capra, in The Founder ne evidenzia per la prima volta nel suo percorso di ricerca il suo lato oscuro, ovvero la transizione dall’America dei pionieri, della Route 66, dei drive-in a quella del consumismo sfrenato e della perdita di innocenza e wilderness. Sarà un caso che nel suo discorso finale Kroc menzioni Ronald Reagan come una specie di alter-ego spirituale?