Paolo Cabrini, poeta visivo. Questa autodefinizione sembra rivelare l’intenzione dell’artista – fiorentino di nascita, ma ora residente e al lavoro tra il Comasco e Milano – di mantenere labili i confini, piuttosto che stabilirli, del proprio campo di ricerca e di lavoro; che è dedicato sia alle parole sia agli oggetti fisici, soprattutto ai libri e agli altri supporti di stampa, fatti oggetto di una continua sperimentazione a livello di materiali, tecniche di lavorazione e linguaggi iconografici. È questa disponibilità, o se si preferisce curiosità, il carattere primo della sua personalità autoriale e della sua poetica, che significativamente assume come tecnica elettiva il collage, che Cabrini pratica lavorando con immagini pubblicitarie e pornografiche, che egli associa in maniera ironica a elementi dell’iconografia degli ex voto.
A questa tecnica si sono affiancate quelle calcografiche: acquaforte, acquatinta, ceramolle e soprattutto xilografia e linografia. Ha realizzato libri d’artista con gli editori Pulcinoelefante, Quaderni di Orfeo, Il ragazzo innocuo. Dal 2007 sono attive le sue Pratiche dello Yajè, marchio editoriale di autoproduzioni sotto cui oggi Cabrini raccoglie fanzine, chapbook di piccolo formato, collage e manifesti tipo-xilografici. Si dedica alla divulgazione dei sistemi di stampa a rilievo (xilografia, timbri, linografia, monoprinting, limografo e altri) presso l’Officina Stampa Alternativa, creata come emanazione della casa editrice. Tra i fondatori di Liber, il salone che raduna gli autoproduttori editoriali, Cabrini è promotore e attento osservatore della cultura dell’autoproduzione editoriale.
A lui, in primo luogo, chiedo di segnare le coordinate di questo campo.
Di cosa parliamo, quando adoperiamo l’attributo ‘autoprodotta’ in riferimento all’editoria?
Possiamo provare a individuare tre tipologie di pubblicazioni: una per cui ritengo più propria la definizione di editoria autoprodotta, e altre due che solo lambiscono la sfera dell’autoproduzione. La prima tipologia di pubblicazione è quella che deriva dal bisogno basilare, da parte di un autore, di pubblicare qualche cosa di proprio. Siamo alle radici dell’esigenza artistica. Questa si esprime nella creazione di un prodotto o di un catalogo articolato di prodotti. Le figure dell’autore e dell’editore possono corrispondere, o intrecciarsi strettamente nella creazione di un prodotto a più mani. C’è dunque, dopo l’ideazione, la costruzione materiale del prodotto, proposto al pubblico: anche la distribuzione è effettuata direttamente, attraverso canali personali, la partecipazione a fiere e saloni, o l’impiego di altri spazi e vetrine, anche via web. Occorre precisare che si può e si deve, per questa tipologia di pubblicazioni, parlare a tutti gli effetti di editoria, in quanto esiste l’atto primo della mediazione editoriale, quello della selezione, condotta dall’editore secondo il proprio stile, la propria idea di arte. Mi colloco in questa prima area di lavoro creativo ed editoriale, che deriva, in sostanza, dal mondo delle fanzine degli anni Settanta e Ottanta, in ambito politico e naturalmente musicale.
La seconda possibile interpretazione del concetto di autoproduzione è quella applicata dalle imprese che propongono, spesso via web, servizi di stampa dei libri di autori che per i più disparati motivi non accedono ai canali editoriali. Qui non c’è il presupposto della selezione, non c’è un atto di mediazione e – lo dico da un punto di vista editoriale, rivelando così la mia distanza da queste pratiche – manca una dimensione creativa.
Cito infine una terza tipologia di pubblicazioni, quelle dei libri d’artista. Penso ai libri in copia unica di un autore come Luciano Caruso. O al lavoro di editori come Alberto Casiraghy in Pulcinoelefante o Luciano Ragozzino in Il ragazzo innocuo. In realtà queste esperienze si avvicinano a quelle del primo gruppo per via della loro grande componente creativa; invece dal punto di vista della filiera editoriale, ad esempio a livello della distribuzione, partecipano dei canali dell’editoria, uscendo così dalla sfera dell’autoproduzione.
Veniamo alla vicenda delle tue Pratiche dello Yajè, anche per comprendere attraverso il suo esempio come si svolge e matura un’esperienza di autoproduzione.
Il marchio nasce nel 2007, e il nome allude alla pratica sciamanica amazzonica dell’aya-wasca, detta anche yage; è un infuso di piante locali, che induce un effetto visionario. Mi piaceva questa idea dell’andare oltre le cose, la loro superficie. Oltre all’idea di creatività, evidentemente, c’è anche un’idea di contestazione. Lettere dello yagé, per giunta, è il titolo dell’epistolario tra William Burroughs e Allen Ginsberg. Pratiche dello Yajè – dicevo – nasce come marchio editoriale, ma non ha mai inteso fornire servizi editoriali.
In principio, per due o tre anni, è stata la sede di collaborazioni tra me e altri autori e artisti. Ne sono derivate alcune plaquette, chapbook di piccolo formato, nella collanina “Labor Rimae”, dedicata alla poesia e alla poesia visiva. Ogni edizione era progettata con una tiratura di quarantadue esemplari, che potevano anche essere poi realizzati come esemplari unici con l’impiego della monotipia. Un grande impegno, sia in termini economici – per via della ricerca di inchiostri e carte adeguate – sia nei termini del tempo per l’organizzazione e la realizzazione delle collaborazioni.
In fondo sentivo però che l’attività di pubblicazione dei testi poetici in quei volumetti di formato quadrato ricalcava l’attività di case editrici di libri d’artista come quelle sopra citate. Mi sono dunque via via mosso verso la cultura underground, che sentivo più libera, più aperta alla sperimentazione. Pratiche dello Yajè è così diventato il marchio di fabbrica di tutti i miei lavori autoprodotti. Comprendo nel catalogo i miei lavori di collage, a cui si affianca un prodotto come la fanzine «Il Côazôn».
‘Côazôn’, ‘codone’ nel dialetto della Valassina, era il soprannome assegnato a un personaggio “border” che si aggirava in quei luoghi [gli stessi in cui ora vive Paolo Cabrini, nella tranquillità di Lasnigo] verso la fine dell’Ottocento. Identificato dai capelli lunghi raccolti in una coda, appunto, costui spaventava le ragazze che uscivano dalle fabbriche, per via del suo aspetto inquietante e del suo stile di vita ai margini della comunità. Io e il mio coautore della fanzine Paolo Triulzi (che in coppia ci firmiamo I Beati Paoli) vogliamo proprio indagare cose emarginate, riscoprire letterature liminari, riportare alla luce esperienze censurate e rimosse, pornografiche e inquietanti. Lo scopo non è tanto quello di scandalizzare, quanto proprio quello di recuperare esperienze culturali emarginate; possibilmente fondendo tutto con un tratto grottesco. L’intervallo di pubblicazione non è regolare, e ogni numero è aperto a eventuali collaboratori. Avviato in formato A5, «Il Côazôn» è oggi impaginato su un foglio A3 per poi essere piegato. Sul verso del foglio c’è un’immagine a colori. Abbiamo scelto di non mettere questa fanzine in vendita, ma in distribuzione gratuita agli eventi a cui la casa editrice partecipa. I singoli numeri sono anche disponibili in pdf dal sito della Fanzinoteca d’Italia e dal portale Issuu. «Il Côazôn» è anche stato compreso nel progetto di fanzinoteca itinerante di Valeria Foschetti (La Pipette Noir).
Quest’ultimo accenno suggerisce l’idea di una sorta di rete di autori, editori e appassionanti di questa tipologia di prodotti creativi. Lo puoi confermare? Quanto conta questo aspetto per un progetto di autoproduzione?
La risposta è sfumata. Da un lato, come si sarà inteso, un’attività come la mia nasce da un’esigenza creativa libera e singolare, per quanto aperta a contatti, collaborazioni e stimoli esterni. Alcuni lavori nascono e vivono per una singola mano autoriale, la stessa che li consegna o li vende al pubblico dei fruitori in contesti come fiere o saloni di autoproduzioni. In altri progetti, invece, conosco contatti e relazioni profonde con colleghi. Di certo ritengo che questo sia un periodo estremamente fecondo per la cultura underground e per i lavori autoprodotti, sia in termini di esperienze di elaborazione e di promozione (festival, saloni, fiere, workshop), sia in termini di attenzione da parte di un pubblico che aumenta a ogni occasione.
A proposito della mia attività di collagista, partecipo al collettivo Oltre Collage, nato nel 2014. Negli ultimi anni si è inaugurato un sottogenere di fanzine collage. La cosa interessante è che ognuno di noi ha messo mano a simili prodotti individualmente, senza che ci fosse un accordo o una comunicazione. Da qui l’idea di collaborazioni, di opere aperte: pezzi che circolano tra di noi, affinché ognuno aggiunga un proprio intervento. Ne derivano pezzi unici. Come d’altra parte sono unici i prodotti ottenuti con la tecnica del collage; la ritengo estremamente proficua: è letteratura dell’immagine, che si costruisce a partire dal frammento cartaceo, da lettere e parole ritagliate, da immagini decontestualizzate e poi ricontestualizzate. Una letteratura che amo. E che ha un mercato, come osservo durante le uscite pubbliche delle Pratiche dello Yajè.
Sto lavorando molto sui manifesti in questo periodo, con i quali sto sondando una nuova linea di lavoro autoprodotto che amplia il catalogo delle Pratiche dello Yajè e che ottiene un buon successo di pubblico, sia a livello di riconoscimento sia a livello di vendita dei singoli pezzi. In effetti mi allontano dal modello del classico manifesto tipografico. Cerco piuttosto di unire la xilografia e i caratteri mobili: lavoro su parole e immagini che si uniscono per dare un contenuto. Si tratta di un atto sintetico, concentrato in uno spazio di 25 x 35 cm, conferendo in questo modo una certa densità all’oggetto che creo. E il lavoro che conduco sulla parola è in effetti complesso, perché da un lato essa è impiegata per il suo significato, dall’altro per il suo valore visuale. D’altra parte, questo non si distanzia dall’idea di poesia a cui mi sono sempre rifatto in ognuna delle mie attività: svolgere un lavoro fisico, anche come artista visuale, sulla parola, conservandone e accentuandone il valore evocativo.