Una delle prime cose che mi è venuta in mente ascoltando l’ultimo album di Dente è una poesia lacrimosa e un poco melensa di Sergio Corazzini:
Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?
Questa è la prima strofa di Desolazione del povero poeta sentimentale tratta dal Piccolo libro inutile (1906) raccolta a quattro mani che contiene dieci liriche di Alberto Tarchiani e otto di Sergio Corazzini.
La canzone, per metà, che apre l’ultima fatica di Dente – Canzoni per metà (2016) appunto – s’intitola in modo significativo Canzoncina:
Scrivo una canzoncina tutta per te
Vera come le mie lacrime
Ma non ti preoccupare non la sentirà nessuno
I cantautori non vendono più
Certo, Dente ha dichiarato, nella fattispecie, di essersi ispirato, o meglio di aver quasi tradotto la prima strofa di una canzone del cantautore americano Willie Nelson del 1973, Sad songs and waltzes. Tuttavia, se nell’ottica di Nelson erano le canzoni tristi a non vendere, in Dente è la categoria intera dei cantautori a non vendere più. E ancora: Nelson scrive una canzone intera con alternanza di strofe e ritornello, Dente scrive una canzoncina che dura 55 secondi, composta da una sola strofa, che comincia appena e finisce su una autocitazione in fade out.
Canzoncina per metà dunque, appenna abbozzata, dedicata probabilmente a una ex metà, ma anche canzoncina senza pubbico, destinata a essere ignorata, o piuttosto, inascoltata.
Sia nel caso di Dente che di Corazzini, mi sembra che l’autocompiacimento nello sminuirsi, nel ridurre l’esperienza e l’attività artistica a una sostanziale inutilità sia lampante, anche se si tratta fortunatamente, soprattutto nel caso di Dente, di un autocompiacimento venato di una sana (auto)ironia.
Siamo d’accordo, un secolo intero separa il poeta dal cantautore. Il poeta Corazzini doveva fare i conti e misurarsi con il poeta vate Gabriele D’Annunzio, il poeta divino dalla vita tumultuosa, intrepido, seduttore di donne e di masse, il poeta che credeva nell’essenza sacrale della parola. Corazzini ne ribalta il paradigma. Lui è soltanto un fanciullino malato di tubercolosi che non sa che piangere e soffrire in silenzio, che scrive versi destinati a restare inascoltati, o nel migliore dei casi, ad accompagnarlo privatamente verso il porto finale: la morte.
Dente, quanto a lui, deve vedersela innanzitutto con la crisi dell’industria discografica e con il fatto che, realmente, i dischi non si vendono più, non soltanto quelli dei cantautori. Poi, ovviamente, i conti deve farli con i cantautori della generazione precedente, i De André, i Guccini, i De Gregori, giusto per citare i più conosciuti. Loro di dischi ne vendevano ancora e non avevano certo l’intenzione di scrivere canzoncine di 55 secondi che parlano di lacrime e di cantautori che non ascolta più nessuno.
Tempi diversi. Difficile paragonare gli anni Settanta e gli anni Dieci del Duemila, soprattutto da un punto di vista musicale. Il modo di produrre, di ascoltare e di fruire la musica ha subito un cambiamento epocale, forse più profondo di quello che hanno conosciuto il cinema e la letteratura. Non so quante siano al giorno d’oggi le persone che ascoltano un album dall’inizio alla fine, dalla prima all’ultima canzone. Le piattaforme d’ascolto come Spotify e Deezer, del resto, spingono sempre di più i clienti a un ascolto frammentato, proponendo liste infinite di playlist (a seconda della stagione, dell’umore o del momento della giornata), di daily mix o di flow (a seconda dei gusti personali del cliente e di quello che ascolta abitualmente), o artisti simili.
Alla frammentazione dell’ascolto corrisponde un nuovo modo di produrre musica, sempre più diffuso tra i giovani artisti e non: quello di registrare un single, un ep o un album da soli, senza l’aiuto di altri musicisti. Ed è quello che ha fatto Dente con Canzoni per metà. Scelta dettata probabilmente da ragioni non soltanto estetiche. Registrare e produrre un album rappresenta un investimento notevole. Se le vendite collassano e se i diritti d’autore provenienti dalle piattaforme di ascolto si materializzano in cifre ridicole e, talvolta, avvilenti, risparmiare sul costo dei musicisti si configura quasi come une sorta di strategia economica di sopravvivenza.
Così, in un’intervista a Repubblica XL, Giuseppe Peveri, classe 1978, in arte Dente, ha dichiarato che il suo disco è una specie di collage musicale e iconografico. Collage musicale perché, come dicevo poco sopra, Dente ha registrato da solo tutti gli strumenti che compongono le sue canzoni e li ha assemblati solo in un secondo tempo, in studio. E un po’ si sente perché ne viene fuori un suono dal leggero fascino retrò e vagamente improvvisato. Le sonorità e le melodie sono decisamente semplici ma efficaci, così come gli impianti ritmici, spesso ridotti all’essenziale o allora assenti del tutto come in Canzoncina o Curriculum, entrambe sotto il minuto, composte da una sola strofa ed eseguite alla sola chitarra e voce.
Collage iconografico, invece, perché la copertina del disco rappresenta una sirena al contrario creata dal collage artist argentino FEFHU. Metà donna metà pesce, ma non come nella tradizione.
E a me, personalmente, viene anche da aggiungere l’idea di una sorta di collage letterario, anche se, probabilmente, non del tutto consapevole. In effetti, i testi di Canzoni per metà sono, per prima cosa, intessuti da una forte intertestualità interna. Sono molte le canzoni dell’album che rimandano a canzoni presenti negli album precedenti dell’artista. Che si tratti del semplice titolo come L’amore non è bello, l’inizio di una strofa come in Canzoncina che finisce con le parole iniziali di Scanto di sirene presente nel disco Non c’è due senza te (2007), o di una canzone già esistente rielaborata per l’occasione come Senza testo 2.0, Dente si diverte a creare una fitta rete di corrispondenze tra il suo ultimo album e i suoi precedenti lavori.
Il gioco intertestuale, tuttavia, non si ferma qui. Volutamente o no (e la cosa, tutto sommato, importa poco), Dente sembra ricollegarsi alla tradizione lirica in minore dei poeti crepuscolari, declinandola ovviamente a suo modo e adattandola alla forma canzone. Perché ad ascoltare bene i testi, non è tanto a Corazzini che è andato il mio pensiero, ma ad un altro poeta “crepuscolare”: Guido Gozzano.
Si prenda per esempio la tonalità dimessa e ironica di canzoni come L’amore non è bello il cui testo è costituito da una lunga lista di piccole cose, piccoli avvenimenti, piccoli casi della vita, piccole situazioni viste e riviste e straviste, piccole frasi fatte sentite mille volte e che finiscono tutte con la rima -ello. O ancora Geometria sentimentale il cui testo ha la stessa struttura ma questa volta in chiave anaforica: tutte le proposizioni cominciano con un che polivalente. Non ho potuto impedirmi di pensare a L’amica di nonna Speranza e alla lista di tutte le sue buone cose di pessimo gusto. E poi ancora una canzone come Come eravamo noi, quasi un canto generazionale disforico e malinconico proprio come quello dei poeti crepuscolari.
La cosa curiosa è che continuo ad essere perplesso davanti a Canzoni per metà. Da una parte trovo la tensione sperimentale di Dente estremamente interessate e coraggiosa. Decostruire la canzone d’autore e aprirla a nuove possibilità è senza dubbio cosa lodevole. Il problema è che dopo l’ascolto dell’album si sente come un leggero sentimento di frustrazione. Si ha come l’impressione che le canzoni vivano più per la loro possibilità di essere che non tanto per quello che sono. Mi piace quindi pensare che Canzoni per metà sia un’opera di transizione, una di quelle opere che fanno un po’ il punto della situazione e aprono nuove possibilità. Aspetto quindi il prossimo lavoro di Dente con impazienza, ascoltando comunque queste piccole canzoni per metà.