Filippo Strumia ha scritto un ottimo libro, ed è un peccato perché avrebbe potuto scriverne uno magnifico. Marciapiede con vista ha infatti un titolo divertente ma un intento tutt’altro che spiritoso. Benché persegua una riduzione al dato più trito e residuale (cartacce e tombini), Strumia cerca una «parola» che sia comunque «liturgia» (p. 58) ed è questa l’ostinazione che trovo incomprensibile.
Nella sua ultima raccolta di poesie, Strumia compie un cerimoniale per gli insetti, i randagi e le panchine, durante il quale i mendicanti svolgono quasi un ruolo sacerdotale. Nella sezione centrale – dedicata appunto ai mendicanti–, «il migliore celebrante» officia i rituali «di un culto che non so» (p. 86), con una sequenza settenario-ottonario che tornerà regolarmente. Il settenario a cadenza giambica, in particolare, assume forme nominali («celeste amico mio», p. 29), ma ammette anche il predicato («ho il marmo nelle vene», p. 111) e la relativa («un prato dove stare» p. 87). Persino il verso più esplicito –«io ti sarò sacerdote»– conta otto sillabe, introdotte da un giambo di sette, e giura fedeltà ai «bicchieri posati sul tavolo, | per lo zelo di essere semplicemente lì» (p. 74).
Strumia riesce talvolta a celebrare ciò che esiste per il solo fatto che esiste: «il grillo è un grillo e il sasso è un sasso» (p. 84), persino «ciò che soltanto è» (p. 58) o che si ripromette di essere «ciò che è» (p. 118). Dunque non mi spiego perché l’invito all’aderenza, l’invito a lasciare il sasso «nel suo luogo dedicato | e l’erba dov’è l’erba» (p. 15), debba essere talora corrotto da ulteriori aggiunte. Penso innanzitutto alla mitologia (i soliti Dioniso e Ulisse, per giunta), ma anche alla dotazione retorica più comune: suppliche, metafore e le più criptiche analogie («Ti prego non soffiare sulle rose | quando colano i metalli della notte»). Di questo passo, la cosa non è più una cosa, bensì diventa un ghirigoro «e dice altro che non c’è» (p. 9).
Strumia vorrebbe focalizzare lo «spazio fra le cose» (p. 21), vorrebbe insomma aggiornare un immaginario preciso che, in Italia, corre dagli Spazi intermedi di Luciano Erba a Padania Classic di Filippo Minelli. Tuttavia capita troppo spesso che Marciapiede con vista rinunci all’inquadratura modesta e rasente che lo avrebbe reso un magnifico libro. Capita che si arrenda a similitudini ricercate, inadatte al contatto rasoterra che i suoi versi vorrebbero inseguire. Strumia non rinuncia a versi enfatici come questi: «l’istante è un carnevale all’alba» (p. 66), oppure «la panchina è compassione», aggravato dagli «smeraldi di tortura» e da una caramella «al gusto delle rondini» (p. 102).
L’ultimo di Strumia sarebbe, insomma, un libro stupendo se fosse letto chiudendo un occhio ogni tanto, così da assecondare una perlustrazione tattile anziché visiva: «Guarda il dito, è un sensore» (p. 110) e «non pensare oltre alle dita» (p. 35). Le poesie migliori del Marciapiede sembrano generate, infatti, da un atteggiamento sacrale nei confronti della materia: «l’adenosintrifosfato» (p. 37) e il «brodo dei prodigi monocellulari» (p. 138). Nelle pagine più felici della raccolta, Filippo Strumia riverisce i corpuscoli e le molecole, il «vortice» degli atomi e il «borotalco» (pp. 56-7).
Mentre le stelle hanno prodotto la materia di cui sono fatti i terrestri, nel continuum delle trasformazioni, anche una «banconota | si converte in caramelle» (p. 22) e «la moneta | che si fa caffè» è un «prodigio» della sostanza che si tramuta in altra sostanza (p. 129). Questi brani lucidissimi contraddicono quello che considero il solo, autentico difetto della raccolta: la tendenza a monumentalizzare le cose ordinarie e porre la cartaccia sul crepidoma del «tempio» (p. 142).
Strumia avrebbe certamente potuto trovare un’alternativa iconografica, oggi, in Italia. I rifiuti e gli arredi urbani sono sacri perché transitori e vulnerabilissimi nei progetti fotografici di Francesca Cirilli (Fossili urbani, Prontolibri, 2015) e Nicola Albertin (Casale che chic), in Piemonte, o di Gosia Jagiello, a Genova (piazzaprincipe.tumblr.com), come già il sacchetto di plastica che svolazzava al vento in American Beauty. Sono sacri, cioè intoccabili, perché esposti al danno e all’incuria: sono cose tra le cose, senza piedistallo.
Quando il bambino, nell’ultima sezione di Marciapiede con vista, chiede: «perché siamo adesso?» (p. 139), la risposta più degna è certamente è il silenzio della «cartaccia | che dopo qualche giro | s’arrende sull’asfalto» (p. 10), poiché lo scampolo accartocciato cade senza essere magnificato dalla rima o dalle moralizzazioni (p. 13), cade senza richiedere un palcoscenico.
Filippo Strumia, Marciapiede con vista, Torino, Einaudi, 2016, pp. 148, € 13.
In copertina: Francesca Cirilli, Fossili urbani.