Domani, giovedì 16 marzo, alle ore 18, Adriana Lorenzi, come ogni giovedì, intervista gli autori dei libri candidati al Premio Narrativa Bergamo 2017. Dopo i primi due incontri, con Giorgio Vasta e Rossana Campo, è turno di Andrea Bajani con Un bene al mondo (Einaudi 2016). Sulla Balena Bianca, ogni mercoledì, la recensione del libro presentato. Qui il calendario degli altri incontri.
Quando si è bambini si è felici? L’infanzia è davvero l’eldorado della vita, il paradiso perduto dell’innocenza? E quando si cresce dove va a finire l’infanzia? Che cosa resta in noi del bambino che siamo stati? Queste sono le domande che Andrea Bajani pone al lettore nel suo ultimo romanzo, Un bene al mondo, pubblicato da Einaudi nel 2016. Perché quando si diventa adulti è normale voltarsi indietro, cercare il capo del filo del nostro percorso, chiedergli spiegazioni. E quando arriva il momento, si scopre che il bambino che eravamo non ha risposte, ci fissa, fa eco alle nostre domande.
L’immaginario comune ci dice che i bambini devono essere felici, che il loro è il tempo del gioco e dell’amore, che i bambini non devono provare dolore. Per infrangere questo falso mito e ridare profondità alla rappresentazione dell’infanzia, Bajani costruisce un testo straniante, che utilizza le tecniche e la struttura del racconto classico per bambini per scardinare dal suo interno il valore che gli è proprio di percorso di iniziazione. Perché le prove che il protagonista si trova a dover affrontare non possono essere superate, e il bambino resta bambino anche quando diventa adulto, ossessionato dal ricordo della propria infanzia asfittica e irrisolta.
Il racconto si apre con due segnali identificativi della favola, che fin dalla prima pagina risultano ambigui e sospendono il lettore nella domanda se quello che stanno leggendo sia un racconto dell’infanzia, sull’infanzia, sia entrambe le cose o nessuna delle due. Il primo elemento è dato dalla mappa che introduce il romanzo. L’immagine di copertina realizzata da Mara Cerri sembra un disegno strappato dal quaderno del bambino protagonista del racconto; vi si trovano le componenti del paesaggio che costituiscono i punti di riferimento della scarna scenografia della sua infanzia: la casa, la piazza, l’asilo, il bar, la chiesa, il bosco, le rotaie che dividono il paese dalla periferia, la casa della bambina sottile di cui si innamora, il cimitero, il confine. È il campo conoscitivo del bambino che muove i suoi primi passi nel mondo, ancora prolungamento familiare della casa, come ne fosse il cortile su cui lo sguardo affettivo e di controllo dei genitori può vegliare senza timori. E la mappa pare volerle attribuire un valore magico, il segnale incoativo di un’avventura.
Il secondo elemento è costituito dal «c’era una volta» incipitario, e si propaga in uno stile di scrittura stilizzato, con poche parole dall’alta ricorsività, il tempo imperfetto e frasi brevi che hanno il taglio e il ritmo di versi poetici. È un procedere che mima il modo di raccontare del bambino, nelle lettere che scrive o che immagina di scrivere alla sua unica amica:
nelle lettere che poi non spediva alla bambina, il bambino usava poche parole e le riempiva di virgole. Perché le virgole erano come il battito delle ciglia sugli occhi: facevano riposare un istante le cose dall’essere sempre guardate. E quello era il modo che il bambino aveva di prendersi cura del mondo.
È però fin dall’inizio il narratore a dirci che quella che stiamo per leggere non è una favola, perché i protagonisti del racconto sono un bambino e il suo dolore, personificazione in altro da sé proprio di quel sentimento che tutti vorrebbero rifuggire e che è un vero e proprio rimosso nell’immaginario legato alla fanciullezza. Se nelle fiabe il protagonista deve superare delle prove che gli giungono dall’esterno, nel racconto di Bajani il percorso che deve condurre il bambino all’età adulta è più complesso, perché è una lotta con se stesso, è la sfida intima del proprio inconscio.
Fin dalla nascita il protagonista è caratterizzato dai segni della malattia, che trova radice nel vuoto esistenziale e affettivo della figura materna:
Ogni tanto passava qualche infermiere, gli toccava le mani, e vedeva che oltre a essere fredde, le mani erano gialle. Quando poi aveva fame, il bambino piangeva, la madre si svegliava e gli dava da mangiare quello che le avevano prescritto i dottori. All’inizio aveva provato a offrire il seno al bambino e il bambino ci si era attaccato. Solo che il seno era vuoto, e quindi era solo il vuoto che il bambino beveva dal capezzolo di sua madre. Lo sentiva grattare lungo la gola e scendere giù. Il bambino succhiava vorace, e voracemente si riempiva di vuoto. Era gonfia di vuoto la pancia, era gonfio di vuoto tutto il suo corpo. Il vuoto bagnava la camicia da notte della madre, e per quanto lei si asciugasse ne restava sempre impregnata.
Per sopperire a questa mancanza, la madre regala al bambino il dolore, che ha tutti i tratti di un cucciolo di cane, riprendendo così una topica della letteratura che vede l’animale associato a una natura infera. Il cane nero è inoltre divenuto un modo di dire per designare una condizione depressiva, grazie a un immagine utilizzata da Winston Churchill per descrivere i suoi stati di ansietà.
La madre del bambino non è una matrigna e la sua condizione non è dovuta all’incantesimo di una strega crudele. Col candore della sua poetica straniante, Bajani descrive il processo che conduce il bambino alla formazione della propria patologia, lascito del vuoto incolmabile della figura materna.
Se la parola depressione non compare mai nel testo, la si intravede sotto le spoglie di un altro termine, la nostalgia:
Dentro la nostalgia [il bambino] era sempre contento, perché tutto era già successo e non doveva avere paura di niente. Per essere felici, pensava il bambino, sarebbe bastato non uscire mai più da quel posto di cui aveva le chiavi. La felicità, si diceva camminando sui suoi tappeti rossi e guardando fuori dalle finestre, era chiudere a chiave le cose belle che erano successe. Diventare grande con le cose che aveva vissuto, e poi non vivere più. Quando lo pensava, il bambino accarezzava il suo dolore e si sentiva finalmente felice. E tra tutte le cose, quella era la cosa più triste.
La figura della madre, spaventosa presenza che si sottrae al suo ruolo nel mondo, e quella paterna, portatrice di un dolore ferino, che deve essere rinchiuso in una stanza per far sì che non faccia male a nessuno, privano la casa del proprio tratto semantico prevalente: la sicurezza. «Il cubo dell’infanzia», come Bajani definisce la casa riprendendo un verso di Zbigniew Herbert, diventa un luogo chiuso e opprimente da cui il bambino sente di dover fuggire; e lo stesso vale per il paese, le cui strade il protagonista percorre dando sempre l’impressione di non essere «un bambino che cammina per strada, ma uno che se ne va».
I percorsi che il bambino compie nel suo cammino verso l’età adulta lo portano a superare i confini apparentemente protetti dell’ambito familiare. Bajani li sviluppa in quattro movimenti: il primo si svolge nel bosco, topos fiabesco del pericolo, dove un giorno, in compagnia della bambina sottile, porta a passeggio il dolore del padre, che aggredisce la ragazza per aver percepito in lei un’angoscia così forte da spaventarlo. Il secondo si dispiega oltre i binari del treno che tagliano in due il paese. Il bambino passeggia per la periferia, dove abita la bambina sottile con il suo dolore spelacchiato; con lei scopre un mondo cruento, ma allo stesso tempo più libero di quello posticcio del paese. Il terzo avviene nel cimitero, eterotopia per eccellenza, dove trova realizzazione concreta quel sentimento di nostalgia in cui il bambino si sente protetto. Qui il suo desiderio di morte giunge al massimo grado, e prende forma nella croce che il bambino costruisce e conficca nel terreno, apponendovi una sua foto e segnando la propria data di nascita e di morte che vengono così a coincidere.
Il quarto movimento vede il bambino salire su un treno che lo porta in una grande città. È durante questo viaggio che scopriamo che il bambino è cresciuto e ora è alto un metro e novanta. Solo che non ha potuto rendersene conto davvero, non ne ha avuto la percezione, perché il tempo in cui ha vissuto era il tempo malato della nostalgia-depressione:
Qualcuno si sorprenderà, forse, nell’apprendere che quelli che in questa storia sembravano giorni, in realtà furono anni. Tutto ciò si deve a una di quelle brutte infezioni che talvolta ammalano il tempo. In questi casi, nulla possono i medici più bravi del mondo. Anche se il cuore batte, la sua è solo vita apparente.
Lontano dai genitori e dal paese prova a costruire la sua vita di uomo, ma ogni notte sogna di tornare a casa dalla propria famiglia, per ritrovarsi incastrato nelle dinamiche familiari da cui era scappato. Ogni sera scrive alla bambina sottile, unica presenza salvifica del romanzo perché portatrice di affetto e di capacità di ascolto. Le racconta tutto ciò che vede e che gli accade. Le scrive la sua storia, cercando di riappropriarsi del tempo e del senso della propria esistenza, che non è però mai risolto. Il bambino diventato adulto trova così nella scrittura l’unico palliativo alla propria fragilità.
Se fosse una favola, ci dice il narratore, ci sarebbe un lieto fine, che qui non può esserci. Perché il passato è fatto di vuoti, di incomprensioni, di domande che non trovano risposta. Perché gli scogli più pericolosi della vita sono quelli interiori, che ha l’uomo con se stesso. L’unico modo per sopravvivere è prendersi cura, senza vergogna, del proprio dolore, cercando di conoscerlo ma accettando che vi sia nella sua natura un lato perturbante che non può essere addomesticato, e che può ferire noi stessi e gli altri.
Il coraggio di avere aperto le maglie della favola, per far sì che in essa entri una concezione più ampia e problematica dell’infanzia, trova però dei limiti nello stesso esperimento di scrittura: mantenendo il carattere universale proprio del racconto per bambini, Bajani decide di utilizzare un’unica lente d’indagine, quella del dolore, che rende il testo in certi punti claustrofobico. Un bene al mondo ha però il dono di scardinare un’intera prospettiva, quella dell’infanzia, e di far emergere le semplificazioni nocive che troppo spesso la accompagnano, nel doppio aspetto qui considerato, intimo e metaletterario. Il romanzo si conclude lasciando il lettore in un senso di incertezza, in una vertigine che la scrittura può soltanto arginare e che è data da quelle domande che valeva la pena che qualcuno ci ponesse.
A. Bajani, Un bene al mondo, Einaudi, Torino 2016, 144 pp. 16,50€