* Questa recensione è stata pubblicata su «Idraonline», nel 2010, e successivamente su «puntocritico», nel 2012.
Umberto Fiori pubblica Voi (2009) per i tipi di Mondadori, nella collana Lo Specchio, in una posizione tradizionale e di prestigio. A partire dal titolo, il libro si presenta come un oggetto compatto e ben confezionato. È una raccolta poetica che presenta non pochi motivi d’eccellenza, tra cui proprio la compattezza spicca in maniera immediata e quasi preliminare.
Voi è un libro senza pause: fortemente concentrato sia nei temi che nello stile. Gli strumenti della sua coesione sono diversi: la lucidità, la pronuncia, la scelta di una struttura forte. Se dovessimo rintracciare un riferimento di genere, sicuramente sarebbe l’invettiva. Voi è un’invettiva contro la seconda persona plurale, una rampogna dell’io a tutto ciò che dell’umanità è non-io. Sebbene questa posa tradisca inizialmente non poca superbia, va detto che il libro non smette mai di perseguire una forte lucidità filosofica e morale. Non è una disordinata raccolta di pensierini ben scritti. Non è nemmeno l’esibizione di una postura intellettuale “contro” e maledetta, che vede nella solitudine e nell’ipertrofia dell’io il risultato dell’esperienza, gli unici valori proponibili dell’arte. È un libro forte e duro, di come non se ne possono scrivere oggi senza indagare zone scomode del pensiero.
Il tema fondamentale è qualcosa di ben noto a tutti: il perenne senso di difetto causato dall’alterità, vissuto però come scontro, come maledizione. L’io è l’unico soggetto della responsabilità, gli altri vivono in un mezzo diverso, in un cielo eletto, lontano. Da cui esercitano il loro fascino che un po’ nutre e un po’ usurpa. Questa condizione genera invidia e rabbia, è un il punto privilegiato da cui condurre una serrata critica sociale e una spietata critica del sé. Fiori la condensa così in un brevissimo testo:
Comodo, essere gli altri.
In salvo, fuori tiro,
padroni di andare e venire
come vi pare.
Invece io – sempre qui,
a disposizione.
(p. 19)
I versi smascherano quanto sia facile la parte degli altri, quanto spesso l’egoismo naturale sia l’unico criterio di scambio sociale. Un egoismo che, si badi, è completamente assunto su di sé prima che deprecato negli altri. L’io è il primo egoista, l’unico. Davvero puntuale la citazione di Gadda in esergo, quel formidabile passo (anch’esso un’invettiva) sui pronomi come pidocchi del pensiero.
Non solo per il tema, ma anche per la fisionomia del protagonista: l’io che prende la parola rischia, non si sottrae al giudizio, è il primo a esporsi. Alla lucidità dell’invettiva, tesa allo smascheramento e alla falsificazione, si oppone l’opacità mentale di chi la pronuncia. Ma Umberto Fiori impiega questo registro per istituire una paradossale, autentica forma di comunicazione. La costruzione e il dosaggio perfetto di una stupenda serie di insulti, tutti in seconda persona, sono il modo per proteggersi da una socialità disgregata e priva di proposte positive. Il libro è una dichiarazione d’amore a denti stretti, urlata all’impiedi. L’affetto, tra un apostrofe e l’altra, si percepisce tanto più forte quanto più è dissimulato e nascosto dietro al rancore. Dopo aver reclamato a sé la solitudine come condizione di grazia e di condanna, l’io si scaglia contro la socialità denunciandone la miseria. Gli altri provocano il soffocamento dell’io, lo perseguitano. Insidiano la purezza della responsabilità proprio perché ne sono esclusi:
In fondo al mio respiro, dentro, giù, giù,
nel punto più buio, dove
sono più solo, sono più io,
vi trovo.
Eravate già lì
a far merenda,
a fare due tiri, a prendere
un po’ di sole.
(p. 11)
Oltre a provocare invidia e soffocamento, l’invettiva è un modo per fare critica sociale. È un atteggiamento classico, alla odi profanum vulgum, con pose da profeta veterotestamentario. Acquista forza proprio perché pronunciato nell’invettiva di un disperato, che ostenta senza timore la propria pochezza, in maniera dignitosa e non gridata. È in queste zone del testo che Fiori dimostra un’insolita bravura nel comporre con ironia e amarezza:
Io spero sempre di imparare
tutto, da voi.
Perché voi siete grandi.
Voi sapete. Vi guardo
intascare l’assegno, chiedere
un caffè lungo, due campari.
Vi guardo scambiarvi le biglie,
i bottoni, le bambole,
bisbigliarvi all’orecchio un altro segreto.
(p. 46)
Mano a mano che si procede nel libro, risalta sempre più il doppio legame che stringe l’io ai “Voi”, quella «povera sterminata minoranza». Gli altri sono un «coro di angeli e di mostri», un pensiero dominante, insieme causa e scopo dell’invettiva. Dopo aver toccato il turpiloquio, verso la fine del libro il filo dell’invettiva si incrina e lascia trasparire in modo diretto un bruciante desiderio di comunicazione. Il tono si smorza, si apre la possibilità di una condivisione diversa. L’autenticità dei rapporti umani può essere raggiunta alle zone estreme della vita: nella rievocazione di un mondo anteriore, prima della guerra identitaria tipica dell’esistenza adulta o al limite nella fratellanza necessaria di fronte alla morte (tema solo suggerito da un testo, presente più come spinta logica ed emotiva che come ammissione). Ma l’acquisto più importante non si realizza con l’evasione. Dopo e dentro la lunga resistenza c’è la resa:
Lo sento, a volte, il bene
che ci vogliamo:
pende dai rami che mi avete appena
spogliato.
Prendetene ancora,
prendetemi, liberatemi
di me. Solo per voi
sono nato.
(p. 88)
Si capisce come una dichiarazione semplice come questa acquisti dal contesto un notevole valore aggiunto. Una forma di condivisione positiva non va cercata altrove, è lo stesso stato di delirante prossimità/assenza che viene odiato e amato lungo tutto il libro. Non esistono alternative: insistere nella miseria è la chiave per ottenere e comprendere la grandezza, sia per il sé che presso il consorzio umano.
Lo stile è estremamente aderente a questa impalcatura “filosofica”. Il monologo non viene mai abbandonato, così come il riferimento costante all’interlocutore. Per quattro volte l’io lascia la parola all’interlocutore, virgolettando e introducendolo con un “Mi dite:”. Lo stile è dialogico, serrato, a volte aforistico. I versi, così come gli argomenti, sono asciutti, drenati, scanditi da un ritmo drammatico. La parte lirica sembra essere funzionale a quella argomentativa. In realtà questa subordinazione, derivata da necessità strutturali del libro, diventa un motivo di potenziamento. Il lirismo, inteso in senso tradizionale come proiezione semantica, è costretto nello schema dell’argomentazione, che per di più è drammatizzato in un monologo. La poesia è condensata, rapida, fusa in un tutt’uno con l’accanimento conoscitivo (e affettivo) che muove l’apostrofe.
Che un ottimo controllo delle risorse tecniche si accompagni a una feconda disposizione analitica, è un motivo che distingue il libro all’interno della ricerca della poesia contemporanea. In più, aver potuto recuperato la funzione morale della poesia, dopo il moderno, dopo il novecento, dopo il post-moderno è uno dei motivi del valore del libro di Umberto Fiori, e la sua proposta valoriale, per lucidità e coerenza, è notevole per un libro di poesie.
Troppo spesso i libri, anche se ben scritti, rimangono vincolati al paradigma trito dell’effusione sentimentale. Recuperare invece la funzione riflessiva della lirica, accompagnandosi con un forte senso della struttura e una pronuncia così ricca e tesa, può essere una strada non priva di potenzialità e innovazione.