Domani, giovedì 30 marzo, alle ore 18, Adriana Lorenzi, come ogni giovedì, intervista gli autori dei libri candidati al Premio Narrativa Bergamo 2017. Dopo i primi quattro incontri, con Giorgio Vasta, Rossana Campo e Andrea Bajani e Nadia Terranova, l’ultimo turno tocca ad Alessandro Zaccuri con Lo spregio (Marsilio 2016). Sulla Balena Bianca, ogni mercoledì, la recensione del libro presentato. Qui il calendario degli altri incontri.
Lo spregio vuole scavare a fondo il tema del confronto per esporlo in una parabola chiara, che ne definisca uno dei tanti percorsi possibili: quello racchiuso tra l’ascesa e la caduta, parallela e inevitabile. Entro questi termini si svolge l’ultimo libro (e quarto romanzo) di Alessandro Zaccuri, che ambienta tra i monti al confine tra Italia e Svizzera una storia di vite ai margini della legalità.
La vicenda è dichiaratamente semplice. Il Moro eredita dai suoi e manda avanti la Trattoria dell’Angelo, ma i soldi veri li fa con la prostituzione e il contrabbando. A cavallo tra infanzia e adolescenza, il figlio – in realtà un trovatello, chiamato proprio Angelo – scopre la vera natura del padre, quella di un uomo forte e privo di scrupoli. Dopo un primo turbamento, decide di imitarlo e diventare come lui. Finché non incontra Salvo, rampollo spavaldo e risoluto di una famiglia di malaffare proveniente del Sud, che proietta la sua figura come un’ombra di luce. Dopo una prima, inaspettata fase di intesa, l’amicizia sfocia in una competizione dalle conseguenze irrimediabili e tragiche.
Il libro è breve e tanto lineare da dare l’impressione di essere costruito coscientemente come una vera e propria parabola, dove ogni elemento ha un peso calibrato con dovizia ed è funzionale al conseguimento di una dimostrazione (a partire dai nomi Angelo e Salvo). In un tempo in cui la narrativa nostrana spesso va alla ricerca di vicende eccezionali e di storie estreme, alle volte francamente poco verosimili, il libro di Zaccuri si distingue per una volontà di semplificare, ridurre le grandi questioni al loro nocciolo.
Il rischio però è quello di mostrare anche i meccanismi dell’operazione narrativa. Ragion per cui le figure in scena paiono assolvere semplicemente alla funzione di ingranaggi narrativi – specialmente nella prima parte, che tradisce l’ansia di predisporre il più in fretta possibile tutto il quadro – e il fosco prodigio dell’infanzia di Angelo si risolve in una discesa prevedibile.
Lo spregio vorrebbe comunicare un senso forte e forse univoco, ma non riesce a nascondere il “trucco” con cui si prepara lo spettacolo. Ciò si traduce in corrispondenze architettoniche (ripetizioni, accostamenti, simmetrie) scoperte nel loro bisogno di rivelare un insopprimibile valore metaforico: come nello schema speculare dell’incontro tra i padri all’inizio e la fine, in cui si mostra una parabola rovesciata, dove si avvera la maledizione scaturita dalla superbia, oscurata anche dall’ombra della statua di San Michele (rubata tra l’altro con un imbroglio vergognoso). La mancanza di credibilità fiacca però l’intensità della scena, per cui il crescendo tanto atteso non sfocia nell’effetto desiderato.
Qui, come altrove, il risultato estetico non convince del tutto perché il testo non riesce a perlustrare la valenza intrinseca di un episodio, o almeno a portarne a galla le tracce, che rimangono inespresse. Piuttosto, la tendenza è quella di una narrazione che si vorrebbe secca ma mostra scopertamente il proprio fragile meccanismo: per questo appare subito evidente quando non funziona a dovere. Ed è un peccato, perché l’idea di fondo del libro – il confronto multiplo tra coetanei, padri e figli – è un tema di grandissimo interesse, del resto caro a Zaccuri.
Questa intelaiatura simbolica si indebolisce definitivamente in una resa stilistica poco efficace, quasi sbrigativa, mossa da una lingua piana che fatica a incresparsi e corrobora questa sensazione di fatica («Sembrava uno che il futuro lo conosce, perché nel futuro c’è già stato», p. 73). Ciò rappresenta in definitiva il limite del libro, che sembra fermarsi solo allo stato embrionale e non avere avuto un vero sviluppo – narrativo, simbolico, semantico – capace di far emergere i valori: tutto rimane fermo e prevedibile, come in una parabola inceppata.