Questa intervista nasce dal lavoro di preparazione di uno dei testi contenuti nel numero 67 di “Nuova Prosa”, dedicato alle Genealogie del racconto contemporaneo (a cura di Damiano Sinfonico e Giacomo Raccis). Silvia Baroni, autrice dell’intervista, si è infatti occupata di leggere La biblioteca di Gould. Una collezione molto particolare di Bernard Quiriny come una riscrittura delle Città invisibili di Italo Calvino.
Bernard Quiriny è nato a Bastogne (Belgio) nel 1978. Dottore in Diritto, insegna all’Università di Bourgogne. Oltre a essere professore universitario, Quiriny è anche critico letterario – dirige la sezione libri per Chronic’art – e scrittore di romanzi e racconti. La sua carriera letteraria è iniziata nel 2005, con la pubblicazione della prima raccolta di racconti, L’Angoisse de la première phrase (L’angoscia della prima frase), ed. Phébus, vincitrice del “Prix de la vocation” come miglior opera prima. Une collection très particulière, edita da Seuil nel 2012 e tradotta in italia per l’Orma editore (La biblioteca di Gould. Una collezione molto particolare 2013), è la sua terza raccolta di racconti. In essa, si alternano, senza un ordine preciso, tre serie di racconti – “Une collection très particulière”, “Dix Villes”, “Notre Epoque” – dove il filo conduttore è rappresentato dal personaggio principale, Pierre Gould. Eccentrico scrittore, Gould apre le porte del suo mondo fantastico ad un amico, il narratore, mostrandogli la sua biblioteca, che custodisce volumi unici nel loro genere, come i libri evanescenti, o i libri assassini; anche le città visitate dal protagonista hanno delle particolarità originali: a Goran, ad esempio, si parlano tre lingue, in tutto e per tutto identiche, eppure i parlanti delle tre varietà linguistiche non si capiscono tra loro. Quiriny costruisce, attraverso Pierre Gould, un universo fantastico che incanta non solo per l’originalità dei suoi mondi ma anche per il tessuto di richiami ai grandi classici della letteratura fantastica che il lettore percepisce ad ogni pagina della raccolta. In particolare, emerge con chiarezza il richiamo alle Città invisibili di Italo Calvino. I racconti di Quiriny si presentano allora come un connubio tra una scrittura originale e la voce del passato, una riscrittura che riesce a contenere in sé la molteplicità delle opere del genere fantastico in un disegno nuovo, personale. L’entretien con Bernard Quiriny cerca di far luce su alcuni punti della relazione tra i racconti di Une collection très particulière e quelli di Città invisibili, a partire dalla struttura delle due opere fino alla rielaborazione del tema della città utopica.
Silvia Baroni: A soli 39 anni, ad oggi lei ha già scritto due romanzi, un saggio e quattro raccolte di racconti. Perché ha scelto di sperimentare generi diversi? Quali sono le difficoltà nel passaggio da una forma all’altra?
Bernard Quiriny: La scelta della forma è decisa dal soggetto: alcuni soggetti possono essere trattati con la forma breve, se ne fa un racconto, altri esigono un trattamento più lungo, se ne fa un romanzo. Di primo acchito, non si fa veramente una scelta. Un soggetto da racconto stirato su una lunghezza da romanzo darà sicuramente un pessimo romanzo, e un soggetto da romanzo ristretto alla forma di racconto, un pessimo racconto…
Passare da un genere all’altro non è di per sé difficile. Semplicemente, ogni autore, suppongo, ha il suo “temperamento” personale, portato più alla forma breve piuttosto che a quella lunga. Alcuni, immagino, sono a proprio agio con entrambe. Personalmente, sono portato soprattutto per la scrittura breve. Amo finire in fretta, in qualche pagina. Ma alla fine, se il soggetto impone un trattamento lungo, mi rassegno…
In Une Collection très particulière, la sua terza raccolta (2012), si sente l’influenza di Città invisibili di Calvino: la struttura “per serie”, il titolo che ha dato alla seconda di esse, “Dieci città”, e il tema di quest’ultima. Lei stesso lo ha confermato in un’intervista per la Librairie Mollat (pubblicata il 3 aprile 2012). Cosa l’ha impressionata di più dell’opera di Calvino?
La verità mi obbliga a dire che non conosco molto bene Calvino. Molto meno bene, in ogni caso, rispetto ad altri ai quali sono stato a volte accostato. Ma poco importa: ci si può “sentire” vicini ad un universo senza conoscerlo a fondo. Diciamo che di Calvino amo un po’ la stessa cosa di Marcel Aymé: la fantasia, il lato ludico; l’attrazione per il fantastico; e allo stesso modo l’approccio logico, rigoroso, in stile Oulipo.
Parlando di aspetti logici, Calvino ha ordinato le 55 serie di città secondo lo schema del calcolo combinatorio. Anche lei ha costruito le tre serie di Une Collection très particulière seguendo un ordine specifico?
No. È il limite del mio interesse per la logica: mi piacciono le serie, i puzzle, ma non ho alcun talento per le formule matematiche. L’ordine dei racconti di Une collection l’ho deciso d’istinto. Ma se il lettore può credere che c’è una formula matematica complicata dietro, tanto meglio.
Nelle Città invisibili, i luoghi d’utopia visitati da Marco Polo portano in loro le tracce di almeno due città reali, Sanremo e Venezia; esse rappresentano le città visibili che si nascondono sotto “le città invisibili”, la matrice originale dalla quale è nata la visione fantastica. Anche le sue città sono create a partire da frammenti di luoghi reali? C’è qualche dettaglio che le rende riconoscibili?
Suppongo che ci sia sempre un po’ di realtà alla base di ogni costruzione immaginaria, che l’autore ne sia cosciente o meno. Coscientemente, posso dirle che Goran (la città dove si parlano tre lingue identiche, ma impenetrabili) mi è stata ispirata dalla stazione della metropolitana Maelbeek di Bruxelles, dove il nome è scritto in francese (Maelbeek) e in fiammingo (Maalbeek) – identico a parte per una lettera; e che Kourmosk (la città dove il centro deserto cresce) è una suggestione delirante ispirata dai centro-città americani, dove non vive nessuno. In fondo, è possibile che si possa riconoscere ogni sorta di dettaglio reale senza che io me ne renda conto.
I due personaggi principali della raccolta, Gould e il narratore sconosciuto, ricordano la coppia di Calvino, Marco Polo-Kublai Khan. I due personaggi storici delle Città invisibili hanno diversi significati: rappresentano sia il tentativo di riscoprire un passato che sembra dimenticato, quale il motivo che ha portato alla fondazione della città, sia, come sostiene Silvio Perrella, una sorta di “diario cifrato” tra Calvino giovane e capace di narrare (Marco Polo) e Calvino adulto ma, in un certo senso, vittima di una crisi interiore (Kublai Khan). Ho l’impressione che anche tra Gould e il suo amico ci sia un dialogo metaletterario, tra Gould-Quiriny, autore di genere fantastico, e Narratore-Quiriny, che riporta le visioni del mondo fantastico. È possibile?
Certamente. Non so bene cosa rispondere. Gould è una sorta di alter ego, me e non-me allo stesso tempo. “Dialogo metaletterario” tra due versioni di me, credo sia una buona definizione.
C’è però una differenza di ruoli nelle due coppie di personaggi: nelle Città invisibili, Marco Polo, il viaggiatore, è il “testimone” del messaggio utopico, e racconta a Kublai Khan, l’ “annunciatario”, le sue esplorazioni in forma di diario; così si ha un resoconto diretto dell’esploratore. In Une collection très particulière non è Gould che racconta delle città che ha visitato: c’è sempre un narratore senza nome che riporta le avventure dell’amico. Perché c’è bisogno di questa mediazione?
Non so dire se sia indispensabile; mi è venuto spontaneo. Riflettendoci, credo che sia quantomeno utile: Gould è un personaggio fuori dal comune, che vive e sperimenta cose straordinarie, e il fatto di far raccontare le sue avventure da un terzo ordinario (all’occorrenza, io), crea una complicità con il lettore. Come lettore, si è più attirati da una persona che dice: “Le racconto la storia di un uomo sensazionale” che da qualcuno che dice: “Sono sensazionale e racconto la mia storia”. Inoltre, è anche una vecchia deformazione da amatore di racconti fantastici: nel fantastico, quasi sempre vi è un racconto-cornice, che circonda il racconto principale conducendo ad esso progressivamente.
Une Collection très particulière inizia con la storia di Robert Martelain, l’uomo che non ha ricordo di ciò che ha scritto il giorno prima. Il tema dell’oblio è caro a Calvino. Ma credo che si tratti di due tipi di oblio differenti: Calvino riflette sulla perdita della Storia e, in un’ottica letteraria, ai cambiamenti che questa perdita ha portato nel genere romanzo, come la dissoluzione del Personaggio e della Natura. Nel suo caso, mi sembra che ci sia invece una riflessione sulla necessità di dimenticare, in qualche modo, i modelli letterari che l’hanno ispirata per avere la possibilità di scrivere qualcosa di originale. Quanto è davvero necessario dimenticare la propria memoria letteraria, quando ci si trova di fronte agli scrittori “classici” che si sta tentando di riscrivere, per rispettare la propria voce personale?
Ci sono diverse dimensioni nella nozione di oblio in letteratura. Innanzitutto, l’idea un po’ melancolica che, alla soglia della storia letteraria, e alla soglia della vita umana stessa, ci sono nove chance su dieci che tutto ciò che viene scritto cada nell’oblio. Ecco cosa rimette l’ego al suo posto: la nostra opera non è nulla, noi non siamo nulla, i libri che lasciamo dietro di noi non sono che una traccia remota, a mala pena visibile. Poi, c’è l’ossessione dell’esposizione, della pubblicità. Pubblicare un libro è un’esperienza paradossale: lo si rende pubblico, si spinge quindi qualcun altro a impossessarsene, a commentarlo, a criticarlo, dunque a parlare dell’autore; allo stesso tempo, l’autore non vorrebbe che si parlasse di lui, se no…non si nasconderebbe dietro a un libro. Ogni volta che ho pubblicato un libro, ho sentito questo desiderio di sparire, di scomparire dai radar, in breve, di essere dimenticato. Infine, esiste l’oblio nel suo aspetto creativo, insieme, precisamente, all’idea di cui lei parla di dimenticare i propri maestri. Non ho delle opinioni precise su questo argomento. Tendo a credere che sia forgiando che si diventa forgiatori, e che, in un modo o l’altro, più si scrive, più ci si allontana meccanicamente dai propri maestri. Detto diversamente, la “voce personale” non si acquisisce alla fine di un combattimento, ma si costituisce attraverso il lavoro, senza che ce ne si renda conto. Si cresce nella letteratura come in qualsiasi altro campo. Si impara a diventare il proprio maestro. Rovescio della medaglia: alla fine, si invecchia e, diventato il proprio maestro, si finisce per imitare se stessi.
Bernard Quiriny, La biblioteca di Gould. Una collezione molto particolare, L’Orma, Palermo 2013, pp. 192.
Genealogie del racconto, a cura di G. Raccis e D. Sinfonico, “Nuova Prosa”, 67, marzo 2017, € 7,75.