Negli anni Novanta nel Regno Unito è successo di tutto. Solo l’idea di riassumere la scena musicale in due righe sensate fa venire al mal di testa. British Invasion la chiamavano, l’invasione delle band britanniche che con il loro pop innovativo e il loro rock contingentemente realista hanno offerto un’alternativa al grunge che arrivava dagli Stati Uniti. A stupire maggiormente è che il risultato viene raggiunto non con un modello internazionale e facilmente esportabile, ma concentrandosi su tutto ciò che è quintessenzialmente britannico. Ed ecco che si parla di Cool Britannia: coltivando la storia musicale isolana e le sue tradizioni popolari si crea un fenomeno che è così verosimile e sanguigno da divenire irresistibile. Tutto d’un tratto la Union Jack, il flat cap, il parka, e persino la Regina diventano status symbol.
Un fenomeno tanto travolgente da sfondare gli argini del mondo discografico: artisti come Damien Hirst offrono collaborazioni e sodalizi con i musicisti così come non se ne vedevano dai tempi della Factory, e persino Tony Blair, per dare un tono di gioventù al suo partito, invita alcuni membri delle band più in vista alla sua festa di insediamento al numero 10 di Downing Street.
I nomi più noti sono ovviamente Blur e Oasis, fazioni opposte e una chiassosa rivalità con tanto di sfide all’ultimo single, che ricordano Beatles e Rolling Stones. Attorno a loro una folla di nomi, che sarebbe scorretto e indubbiamente incompleto provare ad elencare. Dopo quasi vent’anni da questo entusiasmante decennio i nomi di queste band sono rimaste alla storia, spesso indelebilmente legate ad un carismatico frontman o ad un inconfondibile stile, e da qualche anno hanno iniziato a riaffiorare nelle liste dei festival. Molte altre band invece sono state dimenticate, alcune giustamente e altre meno. Stavolta si vuole rendere giustizia ad una band che, a causa del suo eclettico stile che non l’ha affrancata dall’etichetta brit-pop ma che l’ha resa sdrucciolevole ad ogni definizione, non ha avuto quello che meritava: i Supergrass.
L’esordio in mischia: I Should Coco e In It For the Money
Spesso quando menziono questa band la reazione è uno sguardo vacuo ed interrogativo. Che si apre però in un solare “aaah! LORO!” non appena accenno al loro primo singolo. Una canzone così poco rappresentativa che, sempre nel nome della giustizia, non nominerò mai nel corso di questo articolo. Infatti questa canzoncina stona anche un po’ nel loro primo disco: I Should Coco, del 1995, è un disco monumentale. Parte con una velocità punk sconvolgente per poi gradualmente rilassarsi raggiungendo sonorità più intime da fuoriclasse smaliziati. Questi ragazzi di Brighton, così giovani che la firma con l’etichetta discografica aveva dovuto metterla la mamma del cantante, fanno un esordio col botto anche se là fuori la competizione è dura: sul lato Brit gli Oasis i Blur e i Pulp se le suonavano di santa ragione, mentre sul versante più punk se la dovevano vedere con i primi fulminanti esordi di Green Day e Foo Fighters.
Due anni dopo tornano in scena alzando il tiro con In It For The Money, il tipico secondo album di una grande band: fedele ai suoni e alle energie dell’esordio ma molto più ragionato e ben prodotto. L’approccio è sempre scanzonato, il giovane trio non si prende mai sul serio offrendo così una piacevole alternativa all’aggressività e alla pretenziosità della loro scena, senza però mai rinunciare a canzoni ben scritte e ben arrangiate. Alle tastiere troviamo il Rob Coombes, il fratello del cantante Gaz, che inizia ad avere un ruolo sempre più importante nella produzione della band. Se dovessi consigliare un solo disco dei Supergrass – e sarebbe una scelta dolorosa – consiglierei questo, un album che abbraccia bene lo spirito del suo tempo senza però perdere freschezza con il passare degli anni.
La maturità: da Mary all’astrofisica
Dopo questo inizio a perdifiato i Supergrass si prendono una pausa prima di pubblicare il loro omonimo disco nel 1999. Qui si sente mancare l’urgenza dei primi due dischi, le canzoni sono più positivamente pop e la chitarra acustica si fa più sentire. Ma è l’organo che domina nei pezzi migliori: primo su tutto Mary, un capolavoro impreziosito dalla chitarra suonata con l’ebow e dai falsetti del bassista Mick Quinn, accompagnato da un video horror così inquietante che fu bandito dalla TV.
I seguenti tre anni vengono passati lavorando su Life On Other Planets che viene registrato durante una classica vacanzona rock in Costa Azzurra. Si fanno sentire le influenze degli anni 70 ma anche delle lezioni astronomiche di Carl Sagan. Tutto sommato ne esce l’album forse più debole del gruppo, per quanto assolutamente godibile, in cui alle mie orecchie spicca solo il giro di basso tritasassi di LA Song.
Il viale del tramonto, passando per Rouen
Si riprendono decisamente con Road to Rouen, del 2005. Anche questo registrato in Francia ma, a causa di un lutto familiare e di alcuni problemi di gossip per il batterista Danny Goffrey, l’umore era decisamente più cupo, e l’isolamento in un cottage nella rurale Normandia bene si adeguava con la loro idea di lasciare perdere le esigenze discografiche e radiofoniche per concentrarsi esclusivamente sulla musica. I suoni acustici sono prevalenti in tutto l’album, con l’introduzione anche di strumenti insoliti, e spesso le registrazioni vengono fatte in presa diretta, quasi come in un live. Un album sottovalutato ma che è il degno seguito di In It for The Money.
La carriera del gruppo si chiude con Diamond Hoo Ha in cui, per contrasto al disco precedente, i Supergrass di dedicano a pezzi più immediati, basta ascoltare il singolo Bad Blood, un rock asciutto e tiratissimo. D’altra parte si tratta del 2008 e non si poteva fare a meno di riff potenti e suoni graffianti.
Nei loro circa 15 anni di carriera i Supergrass hanno vissuto gli albori del britpop contribuendo, seppur meno rumorosamente di altri, al movimento, e ne sono usciti vivi e con dignità. Molto più di altri. Non hanno mai perso il loro spirito scanzonato, nemmeno con l’età e tutto quello che l’età si porta dietro, e non hanno mai scelto la strada breve per un successo effimero, optando invece per la creatività, la sperimentazione e il duro lavoro. E per questo li ringraziamo perché i sei album che ci lasciano sono impagabili.