Pubblichiamo oggi la prima di cinque interviste ai finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2017, che verrà assegnato nel Ridotto del Teatro Donizetti di Bergamo, sabato 29 aprile 2017. In occasione della presentazione degli autori al pubblico del premio, abbiamo approfittato per rivolgere loro qualche domanda. Cominciamo con Giorgio Vasta, Absolutely nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani (con Ramak Fazel, Humboldt Books/Quodlibet 2016).
Partiamo dal titolo e dal tipo di libro. Un libro di viaggio con una meta precisa, i luoghi abbandonati e marginali degli Stati Uniti: come è nata l’idea?
Il libro è nato incontrando una persona in treno e mettendosi a parlare di viaggi, raccontando la mia curiosità per le ghost town, e più in generale per i luoghi abbandonati. E ricevendo, mesi dopo, una mail con la quale quella persona mi proponeva effettivamente quel viaggio, di condividerlo con un fotografo e di ricavarne poi un libro.
A posteriori, quando il viaggio si andava pianificando e quanto poi è avvenuto, ho cominciato a chiedermi perché quella curiosità per gli spazi disfatti e lasciati andare. Inizialmente mi sono dato una risposta che riguardava soprattutto i luoghi, poi, a poco a poco, durante la scrittura del libro, mi sono reso conto che gli abbandoni che più mi interessavano non erano quelli degli spazi fisici. Trovavano negli spazi fisici un loro riflesso, una specie di cartina di tornasole, ma erano proprio gli abbandoni più canonici e fondamentali, che sono quelli delle relazioni, dei rapporti tra le persone.
Tu sei stato già finalista al Premio Bergamo nel 2012, con Spaesamento: anche in quel caso si affrontava un viaggio, di un io narrante che tornava a casa, a Palermo; un diario di tre giorni. Si tratta di due libri che hanno qualcosa in comune: cosa è successo tra l’uno e l’altro nel tuo percorso di scrittore? E come mai un ritorno a un genere di libro simile – se è lecito parlare di somiglianza?
Senz’altro si può parlare di somiglianza, perché in entrambi i casi lo spazio è la coordinata che viene utilizzata per raccontare il tempo. In Spaesamento l’intenzione, più o meno riuscita, era quella di provare a condurre un’inferenza, fare un ragionamento a sul tempo italiano a partire da un campione specifico di spazio, come Palermo. In questo caso il tempo raccontato non ha intenzione di essere l’epoca, ma è un tempo personale, corrispondente semmai a un’ipotesi di età Adulta, per raccontare il mio mancato ingresso. Perché Absolutely nothing è in qualche modo il racconto di un atto mancato, di qualcosa che si supponeva potesse accadere e non è accaduto, e i deserti si sono rivelati una tipologia di luogo molto utile. Quello di cui mi accorgo è che lo spazio fisico continua a essere per me – forse perché è fatto di materia e il modo in cui la materia si articola – una specie di suggestione inesauribile, tanto da trovarmi di continuo a scrivere di luoghi e accorgermi mentre sto scrivendo che in realtà il racconto del luogo è un pretesto per provare a dire un’altra cosa. In teoria dovrei averlo capito che funziona così la mia immaginazione, però ogni volta mi convinco che voglio effettivamente raccontare quel luogo. E poi ogni volta mi rendo conto che è una scusa.
Ma il rischio non è quello di una scrittura che funziona sempre e solo guardando indietro? I luoghi sono il posto in cui si concretizza una storia trascorsa, e la scrittura prova a “scavarla” fuori.
C’è senz’altro questo rischio, ma forse in realtà più che di rischio, è come se dovessi constatare una condizione. Non si tratta dal mio punto di vista tanto di passato, quanto di individuare un’altra tipologia di costante, che è la mancanza. I luoghi raccontati in Absolutely nothing sono luoghi che sono stati abitati, che sono stati il teatro di una quotidianità; spazi nei quali si producevano e consumavano legami. E di questi rimangono soltanto alcune tracce. È come se ci fosse, in questo senso, da parte mia una fissazione nel desiderare soprattutto rintracciare e nel confrontarmi non tanto con le presenze, con qualcosa di incontestabilmente visibile, ma con l’impronta che rimane nello spazio quando ciò che era presenza è diventato mancanza, è andato via da dov’era.
Io finora ho parlato del tuo libro, ma in realtà Absolutely nothing è un libro a quattro mani, perché oltre alle tue parole ci sono le immagini di Ramak Fazel. Nel libro il testo e la galleria fotografica di Fazel sono in successione: questo perché i due processi creativi sono andati in parallelo ma non si sono mai incrociati? Oppure c’è stata un’ideazione comune e poi uno scambio nella creazione dei due testi?
Diciamo che interviene in modo risolutivo una ragione tipografica, nel senso che il tipo di carta sulla quale sono riprodotte le fotografie di Ramak Fazel ha una grammatura e caratteristiche tali per cui non può ospitare il testo e quindi sta alla fine.
L’altra ragione è quella di fare in modo che entrambi vengano riconosciuti all’interno del testo come autori. Ramak Fazel è a tutti gli effetti autore di questo libro. Nel momento in cui decide di raccontare il viaggio in una maniera rapsodica e ondivaga, che ha come intenzione non quella di illustrare il testo, ma davvero di contraddirlo, di contrastarlo, se non di smentirlo.
C’è un denominatore comune: entrambi abbiamo avuto nei confronti degli Stati Uniti raccontati un atteggiamento centrifugo e abbiamo voluto entrambi lavorare, senza esserci messi d’accordo prima, sull’ambiguità. Io ho scritto un libro che doveva essere un reportage ed è sostanzialmente un libro di invenzione, che prova a far diventare l’ambiguità struttura del libro stesso. Ramak Fazel ha composto la sua sequenza fotografica scegliendo immagini, alcune delle quali non sono state scattate durante quel viaggio. Ramak come me non ha una gran fiducia nei confronti della verità storica, non si fa disturbare dalla cosiddetta realtà oggettiva. Gli interessa comporre un disegno e preleva i propri materiali per comporlo da tempi e anche da luoghi diversi. In questo libro ci sono anche foto che non sono state scattate non solo durante quel viaggio, ma neppure negli Stati Uniti.
Un’ultima domanda: una ragione per cui, secondo te, il tuo libro potrebbe vincere il Premio Bergamo?
Molto sinceramente non penso possa vincere. E non costituisce un problema, nel senso che sono contento di essere tornate a Bergamo, di essere tornato al Premio, per come il Premio funziona, per il lavoro che viene fatto sui libri.
Se qualcuno deciderà di accordare fiducia a un libro che usa la geografia per fare autobiografia, che racconta gli spazi come se davvero gli interessasse raccontare gli spazi, ma in realtà è interessato a ai legami, non l’absolutely nothing, ma l’absolutely nobody, il libro non vincerà il Premio, ma magari verrà letto con interesse, magari persino con soddisfazione.