Libro di mosaico, di tessitura, puntellato tuttavia di improvvise lacerazioni, di tessere non pervenute o mancanti, Santa ricchezza di Lorenzo Babini vuole darsi e darci conto della ineludibile presenza dell’altro, del prossimo, l’altro uomo in carne e ossa inteso non come singolo, ma anzitutto come essere di relazione, come originario essere in relazione. Un “altro” mai dato né acquisito una volta per sempre, mai veramente concesso, materia sfuggente, sottratta, irriducibile, e tuttavia per sempre intrecciata al destino personale di chi scrive, come per sempre intrecciate sono le esistenze che conduciamo e con cui ci leghiamo gli uni agli altri.
Un originario essere in relazione che passa in prima istanza attraverso il corpo, attraverso quello «scandalo della nostra epoca che è il corpo dell’altro», come sottolinea Davide Rondoni nella quarta di copertina. Il corpo, dunque. Un corpo che viene assunto come elemento nucleare della relazione, vero e proprio punto di irradiamento e propagazione, di accumulo del senso, fulcro primario della nostra apertura al mondo. Corpo-testimonianza, che reca su di sé i segni delle perdite, dei sismi e delle fratture interiori; ma anche corpo-precipitato da cui traspare, come in filigrana, una sostanza luminosa, irradiante, qualcosa che alimenta la vita dal suo stesso interno e la fa scintillare: «i corpi sono vicini e distesi, se allunghi la mano ||…ti è dato toccare questo povero resto che forse | ha già visto una luce. […] Lasceremo dei segni sui corpi, non avere | paura, intendo | altri segni, altri corpi | pieni di grazia» (p.13). E la scrittura poetica diviene il luogo – fisico prima che psichico, relazionale prima che testuale – da dove testimoniare della scena dei corpi, del loro costituirsi, tenersi e abbracciarsi come del loro perdersi, consumarsi e dissolversi, in un movimento centrifugo cui fa da contraltare un altro movimento, questa volta centripeto, di arretramento verso l’origine, di richiamo verso qualcosa che, dalla vita e nella vita, dal corpo e nel corpo, ci precede in modo assoluto, e ci esige interamente: «torneremo detriti alla fine di un fiume con in bocca parole, | sentiremo una voce e la foce | sarà gonfia di luce, | mangerà queste cose» (p.17).
E se i corpi sono cifra eletta del poema, essi sono anche nucleo immolato («i corpi erano lontani, sacrificati» p.33), fulcro decentrato e disseminato del vivere, sospesi tra nume e gorgo, tra luce e spasmo, tra precipizio e bacio: «ora guardami, ti sto abbracciando | e tu sei un baratro che non si può possedere» (p.9). La relazione – con gli altri, con il tempo e con l’origine – è questa la ricchezza, lo slargo luminoso dove esistere insieme, perdurare: «raccogli le tue cose, ecco, in questo spazio | che ci sembra di un altro, raccoglie le tue cose | così misere, regalagli un destino, ti prego | guardale» (p.17). Nella raccolta dominano così i pronomi dell’apertura al mondo, la seconda singolare e la prima plurale, il “tu” dell’altro frontale, irriducibile, e il “noi” che tesse la vicinanza, la prossimità, la stoffa cangiante e fragile dell’incontro. Perché è nell’incontro (quel “terzo” che, Lévinas ci ricorda, oltrepassa come un nuovo essere coloro tra i quali avviene) che tutto è rilanciato verso quell’oltre, quell’al di là di noi che tiene insieme l’ordito vulnerabile delle nostre vite e su cui si fonda la possibilità stessa di dirle, queste vite, di nominarle, e se non di salvarle per lo meno di custodirle, senza tradirne l’inesauribile segreto.