Ecco la terza delle cinque interviste ai finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2017, che verrà assegnato nel Ridotto del Teatro Donizetti di Bergamo, sabato 29 aprile 2017. Questa volta vi proponiamo la chiacchierata fatta con Andrea Bajani sul suo libro Un bene al mondo (Einaudi 2016).
Partiamo dal titolo. Un bene al mondo è una favola, o un’anti-favola, che racconta la storia di un bambino e del suo dolore; c’è anche una bambina “sottile” di cui il bambino si innamora, ma alla fine questa sembra la storia d’amore tra il bambino e il suo dolore. Tanto che forse potrebbe essere proprio il dolore il “bene” del titolo.
“Un bene al mondo” arriva da una lettera di Leopardi a Giordani in cui in realtà lui dice «questa piccola città – parlando di Recanati – non è rea d’altro che di non avermi fatto un bene al mondo». Che è una cosa un po’ misteriosa, no, cosa sia un bene al mondo. Quando io ho scritto questo libro pensavo, soprattutto quando ho deciso di intitolarlo in questo modo, pensavo che un bene al mondo per il bambino fosse il dolore. Cioè che il dolore poi alla fine fosse un bene; nel senso che è una delle proprietà, delle cose preziose che abbiamo. Poi quando ho finito il libro mi sono reso conto che forse, in realtà, questo libro diceva che un bene al mondo per me era la scrittura, cioè era la possibilità attraverso la scrittura anche di raccontare la parte che a ciascuno fa più male.
Quindi la scrittura diventa in qualche modo il luogo di terapia, o è il luogo dove proiettare delle ossessioni di cui non ci si riesce a liberare?
No, non direi di terapia. Per quanto naturalmente la scrittura sia prima di tutto un’esperienza, un’esperienza che modifica. Io entro in un libro in un modo, e ne esco totalmente cambiato. Quindi le persone intorno sono spaventate, non sanno come io uscirò da una storia.
Il libro è per me una casa, dove far entrare, dare cittadinanza a cose che normalmente sono disperse, che magari non riesco a capire, a domande confuse. Scrivere un romanzo, per me, è come dare una casa di parole a una storia che ancora non conosco. Alla fine siamo, come dire, coinquilini: io e il personaggio siamo coinuuilini e poi, civilmente, ci separiamo, e io abbandono la casa per farne un’altra.
Questo libro è arrivato tutto in una maniera del tutto imprevedibile. E così anche le immagini, che sappiamo bene sono prerogativa prevalentemente della poesia – la metafora, la similitudine, una metafora prolungata quindi anche un’allegoria stanno dentro il territorio della poesia, e la poesia è quel territorio misterioso che si presenta quando vuole lei, e si presenta con le fattezze che crede. Per cui a un certo punto è arrivata la figura di questa madre, che, appunto, cucina cibi che non hanno né odore né sapore, è arrivata: ha bussato alla porta e ho pensato «Guarda te, poveraccia!».
Un’ultima domanda. Sappiamo che questa è la tua terza partecipazione al Premio Narrativa Bergamo e che le precedenti sono finite con un secondo posto: qual è secondo te un motivo per cui questo tuo libro potrebbe questa volta vincere?
Mah, no, non penso che ci sia un buon motivo; a questo punto io miro alla coerenza del secondo posto.
Penso che questo libro racconti una cosa che riguarda tutti, che racconti una storia molto semplice con cui non necessariamente vogliamo fare i conti, e cioè che ognuno ha una parte che fa più male, che chiamiamo dolore, malinconia, tristezza, e che – questa è una cosa che scopre il protagonista di questa storia – ce l’hanno tutti. E ce l’hanno anche i felici il loro dolore; anche gli allegri. Il dolore non è prerogativa dei tristi. E quindi questa mi sembra una ragione per cui, se qualcuno ha voglia di mettersi in contatto con quella parte lì, può trovare una casa. C’è posto per tutti.