Un lettore ha da guardarsi da due tentazioni opposte e gemelle: quella di cedere e di lasciarsi trascinare dall’onda del successo che investe un libro, di mettere la sordina alla propria ragione dubitante e di aggregarsi al coro, per quieto vivere e per evitare l’accusa di essere il solito guastafeste, un brontolone che, per partito preso, goda nel picconare i gusti più facili e diffusi, e questo sarebbe l’altro rischio, appunto, l’obbedienza al canovaccio già apparecchiato dell’ostilità preconcetta, la recita del bastian contrario. Nel caso de Le nostre anime di notte di Kent Haruf, morto settantunenne nel 2014, volere a tutti i costi assumere il ruolo da brontolone costituisce probabilmente l’ostacolo maggiore al contatto neutro col testo, perché il caso editoriale che si è sviluppato a partire da questo romanzo ha assunto dimensioni inedite, quantomeno a livello di realtà social: l’hype in grande stile, a distanza di un paio di mesi dall’uscita, continua a portare una notevole massa di lettori, siano essi di razza forte e smaliziata o di quella temporanea dei più deboli, a dotarsi del libro, a fini di lettura o di esibizione dello stesso, fotografato accanto alla spremuta d’arancia della prima colazione, tanto che tutta questa frenesia si è tradotta nell’imprevedibile primato delle vendite e nelle due o tre ristampe – non c’è che da complimentarsi, allora, sinceramente. Se il brontolone, infatti, risulterà infastidito da certo mimetismo tipicamente medio-colto che intimidisce e costringe all’acquisto del must have, in virtù di promesse di elevazione sociale emanate dall’ambito parallelepipedo di carta, tale reazione stizzita deriverà dai fattori più vari, vale a dire l’inarrestabile perdita di status del critico e la sua esclusione dai giochi, nonché dai guadagni dell’editore, il quale, benché “indipendente”, non è esattamente una ONLUS – complimenti, di nuovo, e chiunque voglia in futuro e con altri titoli replicare quanto avvenuto analizzi questo percorso e faccia del lancio de Le nostre anime di notte un case study.
Si diceva che un lettore che voglia conservare le proprie facoltà critiche, a volte, ha da prendere un bel respiro, fare silenzio dentro di sé, come in una sorta di esercizio spirituale, e posizionarsi al livello del testo, ritrovarsi alle prese con quello e con null’altro: nel caso in oggetto, tale astrazione dal rumore di fondo durerà molto poco, però, perché la lettura di questo romanzo non impegna più di tanto, data la lunghezza effettiva del testo, che crolla a meno di 130 pagine, al netto di una trentina di pagine bianche che separano i numerosi e brevi capitoletti, a volte composti soltanto da una manciata di righe. “Questo libro è per chi è stato a Holt e non vede l’ora di tornarci, ma è soprattutto per chi, a Holt, non ci è ancora mai stato”: la dicitura pubblicitaria propone una fedeltà di comunità per gli eletti, per i lettori italiani di Haruf, le cui opere sono pubblicate nella nostra lingua da NN, giovane editore milanese, e splendidamente tradotte da Fabio Cremonesi. Prima di questo romanzo, uscito postumo nel 2015 sul mercato statunitense con il titolo di Our Souls at Night e dal quale è stata tratta una pellicola cinematografica interpretata da Robert Redford e Jane Fonda, un’intera trilogia dello scrittore era stata ambientata nella contea di Holt, cittadina immaginaria del Colorado, ed era composta da Benedizione, Canto della pianura e Crepuscolo, romanzi ben più corposi di quello in esame, che però espone il loro medesimo prezzo di copertina: sproporzionato, quindi, in senso relativo e non assoluto.
Addie Moore e Louis Waters, vedovi entrambi, decidono di dividere il proprio letto, di farsi compagnia nelle difficili ore notturne, e ogni sviluppo di trama sarà legato a una scelta che, a fronte dell’età avanzata dei protagonisti, sarà vista come indecente o disdicevole per chiunque entri in contatto con le vite di questa coppia che sta osando restaurare il calore perduto tanti anni prima: ci sono i volti della comunità offesa e incredula e c’è Gene, figlio anaffettivo e stolidamente conservatore di Addie, ma affiorano anche le solidarietà di Ruth, anziana vicina di casa, di Jamie, nipotino di Addie e figlio di Gene, e della cagnetta Bonny. Qual è la soglia che non va oltrepassata, quand’è che il riscatto umano di chi ricomincia a pretendere la propria porzione di felicità incontra i ricatti sociali e ne viene sopraffatto?
L’unica opzione che lasci intravedere una volontà sperimentale dell’autore è la mancanza di ogni sorta di virgolette o trattini che potessero servire a delimitare l’abnorme spazio che i dialoghi occupano nel testo, cosicché lo scivolamento del parlato nel narrato realizza una fusione a caldo, come se la materia restasse appiccicata nelle mani dello scrittore e questi non riuscisse più a separare le voci da qualche criterio d’ordine che ambisse a regolarle. Non servono avverbi, e non ce ne sono, e sono inutili anche gli aggettivi, rari: questa storia invoglia a spogliarsi di ogni vizio estetico che sia stato accumulato, a respingere ogni effrazione letteraria come un’offesa ai caratteri in gioco, ad accettare che la caduta muta e verticale e la consegna al silenzio siano i principi di un’arte, ancora una volta e di nuovo, nuova.
Non c’è molto da aggiungere, su Le nostre anime di notte, il che è un buon segno: i romanzi che orizzontalmente guadagnano spazio e fanno l’occhietto ai critici, invitandoli nel proprio backstage, si prestano ossequiosamente ai loro esami più invasivi, persino a quelli autoptici, non sono buoni romanzi, di solito, bensì “macchine testuali” in grado di scatenare la bramosia tecnica del bisturi. Tuttavia, non è il caso di dare credito a certa propaganda che è stata mobilitata in questi mesi: questo di Haruf non è un capolavoro, ma resta la possibilità che altri, magari della precedente trilogia, lo siano, perché lo scrivente è uno che, a Holt, non c’era ancora mai stato e perché alcuni indizi spingono in direzione di un’interpretazione che faccia di questo testo la prova terminale ed “estremistica” di un autore che, prevedibilmente, aveva saputo raggiungere altri equilibri.
Nell’esercizio degli accostamenti, che è stato copioso, Haruf sembra non entrarci nulla con il minimalismo carveriano, che è più programmatico e più commentato, meno minimale, nulla con Faulkner, essendo quest’ultimo più “offensivo” e meno civilizzato, e poco con Hemingway e McCarthy, a meno che di essi non si prendano le propaggini più didascaliche e sfibrate, cioè Il vecchio e il mare e Non è un paese per vecchi – non siano d’inganno i comuni riferimenti all’anzianità e non dimentichiamoci che il tema è questo Haruf, non uno anteriore, e che persino questo Haruf continui a sembrare superiore a quell’Hemingway e a quel McCarthy: ad accomunarli, però, è una cattiva e (paradossalmente, camuffata con tante sottrazioni) quasi isterica gestione dell’enfasi e del pathos, la prima consistendo nell’energia dispersa, a fronte dell’obiettivo contrario della sua valorizzazione, come per un verso su ogni sillaba del quale cada un accento e che non sapremmo leggere; quello del pathos, del suo sperpero e della sua rimozione, è più o meno il problema della letteratura occidentale, oggi, se non della stessa vita… Ciò che crea attrito, infatti, è la semplicità dei sentimenti e la convinzione che, con essi, sia esaurito il compito letterario, in un panorama che si è popolato di romanzoni che sembrano risentire della grammatica, e non semplicemente dell’estetica, dei videogames: si assiste alla risorgenza di numerosi postmoderni locali che vanno da quello latinoamericano di Roberto Bolaño, con le sue specificità continentali, a quelli di Mircea Cărtărescu, Vladimir Sorokin e László Krasznahorkai, fino al post-esotismo di Antoine Volodine, che recuperano una bandiera già usata dagli statunitensi, in primis dai progenitori Barth e Pynchon.
Della semplicità, allora, se siamo costretti a fare un vessillo, un mito protettivo e difensivo, bisogna conoscere anche i rischi, cioè che essa risulti meno spontanea, via via, e che sia lecito gerarchizzarla, di modo che questa di Haruf risulti meno efficace di quella dello Stoner di Williams, paragone che mi sembra il più azzeccato: Le nostre anime di notte ha davvero le qualità per diventare, da best seller che è, un long seller come il romanzo dello scrittore texano? La grandiosità di un destino piccolo e “sbagliato” che non valeva la pena di modificare, l’assenza di segrete volontà testuali che realizzava, certo per vie inaspettate, quella “morte dell’autore” di semio-strutturalistica memoria: Stoner era questo, e Louis Waters, “un mediocre insegnante di inglese in una cittadina polverosa”, recupera quel pulviscolo ma a grana più grossa, lo fa con un di più di quella consapevolezza che è nemica dei miracoli, oltre a richiamare tutta una tradizione americana di solitudini e (tentate) redenzioni, letteraria e cinematografica – basti pensare negli ultimi decenni al Richard Farnsworth di Una storia vera di David Lynch e al Jack Nicholson di A proposito di Schmidt di Alexander Payne.
Giudicare questo romanzo come tale, e non come operazione editoriale, porta a ridurre e contrastare certi superlativi, a tenere a bada il vortice degli entusiasmi che è stato favorito da critici che, in presenza dell’ansiogena e legittima attività di uffici stampa e social media manager, forse aspirando ad accattivarsi le loro simpatie, finivano addirittura per aumentare la posta o fare scopa, in un’indistinzione dei ruoli che, se faceva bene alle casse dell’editore, non significava automaticamente salute per lo stato della letteratura: Haruf, pur nei limiti della rapida lettura di questo suo solo testo, non sembra “uno dei più grandi interpreti della letteratura americana contemporanea”, come da seconda di copertina, “uno dei più grandi scrittori americani”, come da terza, a meno di non stiracchiare oltremodo una categoria che comprenda Saul Bellow, Philip Roth, William Faulkner, Thomas Pynchon, Cormac McCarthy e qualche altro. In ogni caso, vista l’abilità dell’editore di creare casi del genere, e l’incapacità di chi, come i suoi colleghi mainstream, non è in grado di innescare passaparola social e di manifestarsi al di fuori dei canali tradizionali, auguriamo un analogo successo all’altra trilogia che NN ha cominciato a pubblicare, a firma di Tom Drury, scrittore vivente dell’Iowa.